STORIE DI ARBERESH NEL PAESAGGIO CULTURALE IN MOLISE(POLIS UNIVERSITY)
Studi di cultura Arberesh e Serbo-Croata come strumento per progettare il paesaggio
Studenti Polis University
Ermal Hoxha, Malvina Istrefaj, Esmerina Hidri, Xhina Fejzaj, Marin Hoxha, Filip Çeçi, Kristiana Meço, Steisi Vogli, Andrea Rapo, Luçiano Mema
L’idea di questo progetto di paesaggio parte da una constattazione fatta nel territorio del Basso Molise. Come studenti di architettura e pianificazione formati in Albania, eravamo interessati alle comunità di minoranza etnica come gli Arberesh (ed i Serbo-Croati). Era una storia incognita per noi, mai raccontata, ma comunque parte della nostra storia. Come mai si trovano in questo territorio? Come sono riusci a conservare lingua, usi e costumi cosi a lungo (quasi 6 secoli)? Quali sono le “conseguenze” di tale presenza culturalmente cosi diversa nel territorio e nel paesaggio? Come si può proteggere questa diversità (se considerata come ricchezza)? Si può promuovere come esempio di lunga convivenza e di scambio constante culturale tra popolazioni locali preesistenti e nuove presenze etniche?
Il progetto cercherà innanzitutto di rispondere a queste domande tramite studi ed analisi sul territorio, ed in seconda fase di strutturare una strategia finale per valorizzare tali realtà territoriali, dove probabilmente una formula di mescolanze culturali è la chiave della sopravivenza.
La metodologia di progetto è la seguente:
1. Studio della bibiografia che racconta la storia degli esodi balcanici verso l’Italia. 2. Storia degli arberesh in Italia dal 1300 al 1800. 3. Studio dell’area vasta: Molise, Puglia, Basilicata, Campania, Abruzzo. 4. Stategia di progetto per l’area vasta 5. Strategia area di studio: Molise 6. Fattore arberesh (serbo-croati) nella stategia area Molise 7. Strategia totale per il Basso-Molise e progetto per aree di dettaglio
Il progetto viene concepito principalmente in scala interregionale, dove si cerca di stabilire nuove connessioni infrastrutturali, economiche, turistiche e religiose tra le due sponde dell’Adriatico. Da sottolieare è anche lo studio delle connessioni spirituali tra questi territori, dove si intrecciano storie di emigrazione, di tragedie, ma anche di ospitalità. Storie che oggi, dopo secoli di scambi comuni, tentano di raccontare ancora una volta le grandi potenzialità della diversità culturale.
Lo studio dell’area vasta si realizza attraverso dei continui “zoom-in” e “zoom-out”, per poter poi concludere con un progetto che tiene conto della trascalarità del territorio, dove macro-sistemi si snodano in micro-sistemi territoriali.
PIANI PAESISTICI - BASSO MOLISE (Steisi Vogli) La rapida modernizzazione di un territorio antico Per poter comprendere le caratteristiche architettoniche ed urbanistiche del sistema insediativo nell'area del Basso Molise, bisogna ripercorrere, nel tempo, l'evoluzione delle condizioni economiche e sociali delle popolazioni insediate fin dal tempo antico. Il punto di partenza per un'analisi di questo tipo, anche per le notizie certe che si possono utilizzare, è il periodo storico all'epoca degli Italici ed, in particolare, dei Frentani.In questo periodo infatti già esistevano alcuni elementi di organizzazione territoriale che, ulteriormente sviluppati con la colonizzazione romana, hanno segnato un assetto quasi definitivo della struttura insediativa. Le strutture primarie di organizzazione territoriale al tempo degli italici erano i percorsi tratturali che attraversavano tutto il Molise ed anche l'area frentana. Due tratturi, l'Aquila-Foggia ed il Centurelle-Montenero, attraversavano tutta la zona mentre un terzo Ururi-Serracapriola toccava l'agro di San Martino in Pensilis. Poiché le vie della transumanza hanno rappresentato, storicamente, per centinaia di anni, le uniche strutture di comunicazione e di scambio economico e sociale fra le popolazioni, è evidente che esse sono diventate i principali elementi di organizzazione della struttura insediativa. All'epoca degli italici i tratturi citati collegavano i territori delle popolazioni Marrucine e Vestine con gli Apuli attraversando tutta l'area frentana. Ancora oggi si può leggere l'organizzazione dei sistemi insediativi urbani in funzione della presenza dei tratturi. Infatti su quello Centurelle-Montenero sono attestati tre degli attuali comuni più importanti dell'area: San Martino in Pensilis, Guglionesi e Montenero di Bisaccia. Sull'altro, l'Aquila-Foggia, si trovano i comuni di Portocannone, San Giacomo degli Schiavoni e Petacciato. Il comune di San Martino in Pensilis e quello di Guglionesi sono collocati in una posizione mediana rispetto ai due tratturi. Con la decadenza dell'impero romano, si ha anche un notevole degrado del paesaggio agrario e di quello urbano; solo con la dominazione longobarda e con la colonizzazione benedettina si riesce ad avere una notevole ripresa delle attività economiche e sociali. Questo portò alla rivitalizzazione degli antichi insediamenti ed alla localizzazione in territorio agricolo di alcuni centri ecclesiastici costituiti essenzialmente da pievi, monasteri e chiese. Anche in questo caso si può rintracciare, nella localizzazione di questi interventi, la logica insediativa che ritrovava nelle vie della transumanza gli elementi primari della organizzazione territoriale. Infatti lungo il tratturo Centurelle-Montenero dovevano trovarsi le Pievi di Casalpiano, S. Onofrio, S. Maria, S. Martino, S. Gennaro di Corno, Serramano oltre i nuclei abitati già citati, mentre su l'Aquila-Foggia le pievi di Ramitelli, S. Leonardo, Petacciato e Tecchio. Questo tipo di organizzazione territoriale è rimasta valida fino all'inizio di questo secolo. Successivamente con la costruzione delle ferrovie, delle strade statali e non ultime delle superstrade lungo le fondovalli, si va conformando una dislocazione delle strutture primarie di organizzazione territoriale ortogonale alle antiche vie della transumanza che, attualmente, non assolvono più ad alcuna funzione precipua di sviluppo territoriale. Le caratteristiche urbanistiche degli insediamenti urbani risentono essenzialmente delle condizioni particolari dei siti e del periodo storico in cui i nuclei più antichi vennero realizzati. Nel nostro caso, la maggior parte dei nuclei urbani sorge su colli o poggi e quindi risentono, nella morfologia, di questa condizione. Inoltre l'impianto dei nuclei urbani è, per la maggior parte di essi, di origine medioevale. Vi sono poi insediamenti monofunzionali extraurbani con due diverse valenze: industriale e turistica. L'insediamento industriale in via di consolidamento è presente fra le località di Termoli e Campomarino, l'area fisicamente interessata è individuata dal Fiume Biferno e dalla strada statale. Quelli turistici individuati: dal nucleo di Campomarino Lido, dalla edificazione lungo la costa a nord di Termoli nel territorio di questo comune fino al confine col territorio di Petacciato, di complessi e villaggi marini con insediamenti a carattere consolidato. Anche il Comune di Petacciato presenta in località lido di Petacciato un insediamento a carattere turistico. Sono presenti sulla fascia costiera un cospicuo numero di insediamenti rurali accentrati, presenti in località Ramitelli, Nuova Cliternia, Strada statale Campomarino-Portocannone, Colle Calcioni, Montebello e insediamenti rurali sparsi lungo strade statali, provinciali e vicinali con caratteristiche in alcuni casi di propria autonomia; inoltre pure cospicua è la presenza sul territorio di casolari e residenze signorili rurali. L'agricoltura più avanzata della regione
E' la frammentarietà culturale che caratterizza il paesaggio agricolo di alcune aree di questa zona. Il territorio in esame è ampiamente coltivato con diverse classi di utilizzazione. Tra queste prevale il seminativo con l'avvicendamento frumento duro-girasole e frumento duro-barbabietola nelle aree irrigue; le specie foraggere, coltivate sempre meno a causa del declino della zootecnia, hanno limitatissima importanza. Tra le colture arboree presenti dominano la vite, quasi sempre allevata a tendone, e l'olivo, con oliveti di nuovo impianto, e con oliveti secolari che, con una concentrazione areale molto significativa, circondano i centri abitati. I frutteti hanno limitata importanza; l'unica estensione apprezzabile di pescheto è situata sui suoli alluvionali dell'area vicina al confine di regione, in sinistra Trigno. Nei seminativi arborati la consociazione prevalente è con l'olivo. I boschi di roverella governati a ceduo occupano una limitatissima estensione. Le poche aree rimaste incolte sono rappresentate per lo più da terreni della fascia litoranea e da strettissime aree di rispetto lungo i corsi d'acqua occupate dalla vegetazione spontanea tipica. Si osserva che la distribuzione areale delle colture è in gran parte correlata alla morfologia del territorio, alla natura dei suoli e al fattore irriguo. In generale man mano che si procede dalla costa verso l'interno diminuiscono le colture arboree a vantaggio del seminativo e si accentuano i caratteri di estensività. Vi sono terreni a potenzialità molto elevata. Appartengono a questa classe: i suoli alluvionali delle basse valli del F. Trigno, F. Biferno, T. Sinarca e dei corsi d'acqua minori; i suoli bruni mediterranei della fascia collinare immediatamente retrostante la costa nei territori di Montenero di Bisaccia, Petacciato e Termoli, e del bassopiano che interessa il territorio di Campomarino e la parte orientale del territorio di S. Martino in Pensilis vicina al confine di Regione. Le limitazioni d'uso sono pertanto modeste. L'uso attuale dei terreni ricadenti nel territorio di Montenero di Bisaccia e Petacciato è adeguato alle capacità potenziali, mentre nelle restanti aree predomina tuttora la coltivazione estensiva dei cereali. Ai terreni a potenzialità media appartengono: i suoli delle aree interne del territorio di Montenero di Bisaccia e Guglionesi e quelli situati nei pressi dei centri abitati di Portocannone e di San Martino in Pensilis; i suoli sabbiosi e le sabbie del litorale. I suoli delle aree interne a morfologia meno dolce e con pendenze a volte sensibili, presentano per la maggior parte una tessitura tendenzialmente argillosa e problemi strutturali accentuati dalla totale assenza di sistemazioni idraulico-agrarie. Solo nelle aree limitrofe ai paesi, prevalgono suoli con granulometria sabbiosa o di medio impasto, ove si trovano oliveti secolari di grande valore paesaggistico. L'uso attuale di questi suoli è limitato alle colture tradizionali (frumento duro avvicendato al girasole e più raramente alle foraggere). La produttività e la possibilità di scelta colturale potrebbero essere incrementate mediante interventi di sistemazione idraulico-agraria volti a migliorare la fertilità fisica e a diminuire l'erosione. I terreni sabbiosi sono localizzati lungo una stretta fascia litoranea, che assume la massima ampiezza nel territorio di Campomarino in corrispondenza della Bonifica di Ramitelli. Le limitazioni d'uso derivano dalla tessitura, eccessivamente sabbiosa e dalla tendenza all'impaludamento nei mesi invernali. L'uso agricolo di questi suoli è limitato ad alcune zone, attualmente destinate a seminativo e a vigneto, i cui risultati produttivi sono però condizionati negativamente dalle caratteristiche di cui sopra. Alla classe di terreni a potenzialità marginale appartengono: i terreni dell'area nei pressi del centro abitato di Montenero di Bisaccia in contrada Capo della Serra, ove sono in atto fenomeni di dissesto idrogeologico a carattere calanchivo. Tale zona è costituita da terreni calanchivi e da terreni il cui dissesto è meno accentuato, ma ugualmente compatti, impermeabili e di scarse potenzialità produttive. Il recupero di queste aree marginali ai fini agricoli o forestali richiede interventi onerosi e di esito incerto, difficilmente proponibili in termini di tornaconto economico, dato il basso livello delle rese ottenibili o, in caso di imboschimento, per la difficoltà di ottenere una soddisfacente copertura forestale. Il rivestimento vegetale di queste pendici è comunque auspicabile allo scopo di contenere e rallentare l'espansione dei fenomeni erosivi. La riduzione della fauna e della flora per l'intensa attività antropica
L'attività antropica ha portato alla distruzione quasi totale della vegetazione naturale originaria del territorio in esame. A causa del logorio degli ecosistemi, molte specie animali un tempo presenti sono scomparse e tutte comunque hanno subito una drastica riduzione. Allo stato attuale, la vegetazione relitta è talmente rara che non produce più biomassa a sufficienza da garantire un'attività biologica ed ecologica soddisfacente sotto il profilo naturalistico. Occorre salvaguardare la vegetazione rimasta, proprio per la sua rarità ed evitare che vadano distrutte anche le ultime tracce della vegetazione tipica di questo territorio. Tra queste vi è la vegetazione delle sabbie litoranee e la vegetazione sempreverde mediterranea. Il manto vegetale delle dune litoranee, costituito da specie pioniere consolidatrici, date le profonde alterazioni subite dalla costa, è andato in molte zone distrutto. Con esso, la vegetazione a piante con foglie persistenti, propria della regione mediterranea, ha subito un vasto processo di degrado: è stata ormai cancellata come struttura forestale, essendo scomparsa la lecceta (pochi esemplari di leccio sono presenti nella zona tufacea di Campomarino e in località Ponte Tamburo, nei pressi di Termoli) e permane ormai solo in aspetti degradati e diradati di macchia.
L'unico residuo apprezzabile dell'associazione vegetale tipica del litorale mediterraneo, appartiene al territorio di Campomarino ed è localizzato nel tratto di costa compreso tra la foce del torrente Saccione e la fustaia artificiale di protezione della costa. Qui è ancora possibile osservare l'evoluzione degli aspetti pionieri, rappresentati dagli insediamenti di graminacee, (come la Gramigna delle spiagge (Agropyron funcem) e lo Sparto pungente o ammofila (Ammophila arenaria) colonizzatrici delle sabbie più vicine alla battigia e delle prime dune, agli aspetti gradalmente più densi e strutturati della vegetazione arbustiva tipica della macchia mediterranea. Il litorale di Campomarino è di notevole interesse anche per varie specie di macrofunghi rari; tra essi taluni non sono mai stati osservati sul territorio italiano e pertanto la loro presenza è di difficile interpretazione.Le fustaie artificiali presenti lungo il litorale di Petacciato e di Campomarino costituiscono un tentativo di ripristino delle condizioni di difesa originariamente esercitate dalla macchia mediterranea. Tra le essenze usate nell'imboschimento prevalgono gli ibridi di conifere, che inibiscono la crescita del sottobosco e che, in quanto specie non autoctone, esercitano esclusivamente una funzione meccanica di consolidamento della costa, non potendo sostituire la vegetazione originaria nelle funzioni biologiche e naturali. Vi sono anche interessanti testimonianze di vegetazioni caducifoglie submediterranea. L'attività antropica ha condizionato profondamente anche il paesaggio vegetale dell'area retrostante la fascia costiera. Il disboscamento, finalizzato all'utilizzazione agricola dei suoli, ha inciso negativamente sulla estensione delle formazioni forestali indigene, costituite prevalentemente da latifoglie decidue con dominanza della quercia.
Movimenti storici ed architettonici con vista sul mare L'area comprende tutta la fascia costiera del Molise; questa parte del territorio nell'epoca degli italici era occupata dalle popolazioni Frentane. Le maggiori città Frentane di cui si è avuta conoscenza, ricadenti nella zona interessata, di cui però si è persa ogni traccia erano: “Buca” di incerta ubicazione, forse individuabile sul sito dell'attuale Termoli; “Cliternia” probabilmente ubicata tra San Martino in Pensilis, Torre Ramitelli o Campomarino; “Usconium” individuabile nel territorio di San Giacomo degli Schiavoni. La più importante città frentana “Larinum” si trova al di fuori di questo territorio. Le tracce più antiche della presenza umana si fanno risalire all'homo trogloditico vissuto a Campomarino. Sempre a Campomarino, recentemente, è stato rinvenuto un insediamento protostorico. L'area è attraversata anche dalla valle del fiume Biferno che storicamente ha assunto sempre una notevole funzione nellavita economica del territorio ed è stata anche interessata da centinaia di insediamenti antichi dal Neolitico antico al Medio Evo. Notevole importanza hanno assunto nella zona i percorsi tratturali che collegano l'Abruzzo con le Puglie attraversando un'ampia area del Molise. L'area era attraversata da tre tratturi: l'Aquila-Foggia, Centurelle-Montenero, Ururi-Serracapriola. Allo stato attuale i suddetti tratturi sono evidenti solo in alcune parti, mentre altre sono state occupate da infrastrutture (strade, ferrovia, ecc.) o da privati. Inoltre in molti comuni, per effetto di distruzioni e devastazioni, per eventi naturali o storici, sono andati perduti monumenti di un certo valore. Infatti a Guglionesi c'era un sistema di fortificazioni con mura al cui interno si trovavano dei conventi ed un ospedale. Così a Campomarino dove si potrebbero individuare solo le tracce d'un antico castello eretto dai Longobardi e dai Benedettini ed in parte distrutto dal terremoto del 1456. Di grande interesse sono anche le case rurali presenti nella zona. Le caratteristiche dell'insediamento rurale dipendono dalle condizioni economiche delle popolazioni in un determinato periodo storico, dalla situazione geomorfologica dei siti, dalle condizioni climatiche e dalla possibilità di reperimento di determinati materiali da costruzione. Influenza notevole, anche se poco indagata, ha avuto il livello di maestria dei muratori e della manodopera in genere che, in un determinato periodo, hanno operato nel territorio nella costruzione delle dimore rurali. Infatti, la definizione della edilizia rurale come spontanea non sempre è suffragata da dati reali in quanto, per molto tempo, in determinati periodi, erano proprio i maestri muratori che, operando in determinate zone, anche per le loro conoscenze tecniche e culturali, riuscivano ad imprimere un particolare segno nelle abitazioni che andavano realizzando o ristrutturando. Altra particolare importanza, nella classificazione delle dimore rurali, riferite soprattutto alle particolari caratteristiche insediative, assume l'uso e la funzionalità del manufatto agricolo che, in alcuni casi serviva per residenza e per ricovero animali o rimessa attrezzi, in altri era destinato solo a funzioni di servizio. C'è inoltre da osservare che in molti casi, soprattutto nel Molise, la casa rurale era e continua ad essere la dimora dei centri abitati poiché la popolazione rurale viveva nei grandi centri piuttosto che in territorio agricolo. Questi tre elementi sito, strutture agrarie e rete stradale contribuiscono notevolmente alla definizione di un ambito paesaggistico ed influenzano anche i modi di edificazione e di occupazione del suolo. Il Cataudella nel suo libro “La casa rurale nel Molise” aveva fatto varie classificazioni delle tipologie agricole individuando nell'area del Basso Molise tre tipi particolari: la varietà tipologica “di pendio” diffusa essenzialmente nella zona collinare di Montenero di Bisaccia e della valle del Trigno; la varietà tipologica “a scala esterna” praticamente diffusa su tutta l'area interessata dal nostro studio; “le dimore elementari” (monocellulari o bicellulari) diffuse soprattutto nella zona tra Portocannone e San Martino in Pensilis. Le dimore con scale esterne assolvono ad una particolare funzione che è quella di lasciare libero il piano terreno per ambienti destinati a stalla o a depositi e servire il piano primo che funzionava essenzialmente come spazio per attività residenziali. La varietà tipologica di pendio, essendo localizzata in zone scoscese, presenta normalmente due ingressi: uno a valle che disimpegna gli spazi rustici e l'altro a monte che serve gli ambienti residenziali. Le dimore elementari sono invece prodotto di una edilizia molto povera in quanto servivano come residenza per i contadini meno abbienti i quali, molto spesso, utilizzavano queste case che erano costituite da uno o due vani soltanto. Sono anche presenti, soprattutto nelle zone tra Portocannone e San Giacomo degli Schiavoni o nelle aree dove era più grande la proprietà fondiaria, edifici rurali abitati da più famiglie. Le aree dove maggiore è la presenza di edifici e dove i manufatti evidenziano delle caratteristiche di notevole interesse sono quelle ricadenti nei comuni di Campomarino, Portocannone e San Martino in Pensilis. Bisogna tenere presente che in questa zona, molto fertile, storicamente, è sempre esistito un notevole insediamento rurale con casolari che in alcuni casi risultano anche fortificati e presentano una chiarezza tipologica di rara bellezza. Nelle zone più vicine al mare, sulle colline degradanti, si trovano si trovano molte dimore cosiddette “padronali” che assolvevano ad una funzione di residenza estiva, ma anche di unità produttiva, in quanto erano un tutt'uno con le residenze dei braccianti (di norma al piano terreno) e gli ambienti di servizio. Nel dopoguerra, con la riforma agraria, nell'agro di Campomarino e San Martino in Pensilis furono realizzate molteplici casette rurali che per la loro tipologia e per il rapporto con l'ambiente caratterizzano in modo particolare il paesaggio agrario.
Ref. Piani Paesistici - Basso Molise ,Banca dati ambientale dei comuni della provincia di CAMPOBASSO
Una breve descrizione dei paesi Arbëreshë (Steisi Vogli)
Ed oggi, col termine Arbëresh cosa s’intende? Così sono dette le popolazioni di lingua albanese che vivono nell’Italia meridionale. Stabiliti in Italia tra il XV e il XVI secolo, appena prima e dopo la morte del grande eroe albanese, Giorgio Kastriota Skanderberg, sono riusciti a mantenere la loro identità tanto integra da poter essere ancora identificati come Albanesi. La loro nazione, sparsa in Italia è coralmente indicata con il termine Arbëria. A differenza della maggior parte degli Albanesi che vivono altrove, in gran parte musulmani, gli Arbresh sono cattolici. Se prima della conquista da parte dell’impero ottomano tutti gli albanesi venivano chiamati Arbresh, dopo l’emigrazione che disperse parte della popolazione (300.000 unità si sono stanziate solo in Italia), gli Albanesi nativi dell’Italia hanno continuato ad usare il termine Arbëresh mentre ormai in Albania si sono dati il nome di Shqiptar” (p.b. a.g.). Sono i discendenti di profughi Tosk albanesi per lo più fuggiti dall'Albania tra il XIV e il XVIII secolo a seguito dell'invasione ottomana dei Balcani. Durante il Medioevo, l'Arbëresh si stabilì nell'Italia meridionale in diverse ondate migratorie, in seguito all'istituzione del Regno d'Albania, alla morte dell'eroe nazionale albanese Gjergj Kastrioti Skënderbeu e alla graduale conquista dell'Albania e dell'Impero Bizantino da parte degli Ottomani.I villaggi Arbëresh contengono due o tre nomi, uno italiano e uno o due nomi arbëresh nativi con cui gli abitanti del villaggio conoscono il posto. Le comunità di Arbëreshë sono divise in numerose isole etniche corrispondenti a diverse aree dell'Italia meridionale. Oggi l'Italia conta 50 comunità di origine e cultura arbëresh, 41 comuni e 9 villaggi, distribuiti in sette regioni del sud Italia, formando una popolazione di circa 100.000 persone.
Nonostante i cinquecento anni trascorsi dalla loro venuta in Italia gli arbereshe sono ancora un patrimonio di culture il cui contributo non è soltanto quello depositato nella storia ma da quella storia può leggersi una motivazione molto più alta che si riferisce, appunto, ad una forte presenza di radicamenti etici. Anche nella temperie risorgimentale e pre e post unitaria gli arbereshe sono stati tra i fautori dell’unificazione pur vivendo la loro duplice esistenza culturale, storica e umana. Non sono stati solo dei testimoni ma dei protagonisti negli eventi storici che hanno preparato e costruito l’Unità d’Italia.
Il bilinguismo rafforza, in effetti, il senso di appartenenza. Gli arbereshe sono quelli che hanno lasciato una Patria, anzi hanno perduto una Patria.Nella loro storia ci sono elementi che definiscono le origini stesse della cultura del Mediterraneo. Un Mediterraneo che ha realizzato sempre incontri tra civiltà. Un incontro, che la letteratura ha ben sottolineato, tra popoli di mare e di terra. La loro presenza, (degli arbereshe) appunto, ci riporta a delle immagini orientali che hanno trovato un’armonia in un Paese profondamente radicato in una identità Mediterranea. Ma gli stessi arbereshe documentano una sintesi storica ed umana che centralizza il viaggio comunitario di un popolo. La difesa della lingua significa, chiaramente, difendere un patrimonio di eredità ma salvaguardarla in un processo multimediale e ancora multietinico significa, tra l’altro, creare dei tracciati miranti alla tutela di una cultura che non è più solo orale, come lo è stato per secoli, ma cartacea, strutturale, urbanistica. La lista delle comunità arbëresh in Molise: Provincia di Campobasso: Campomarino: Këmarin Montecilfone: Munxhufuni Portocannone: Portkanuni Ururi: Rùri
Referenca: P. Bruni, ed. (2004). Arbëreshë: cultura e civiltà di un popolo
Comune di Campomarino (Kristiana Meço)
Il Territorio di Campomarino è abitato sin dalla più remota antichità: risalgono infatti al IX-XVIII secolo a.C. i resti dell’insediamento scoperto nel 1980 in località Arcora. Distrutta più volte durante le invasioni barbariche, riuscì a risorgere ed a divenire centro di primaria importanza longobarda e normanna.
Beni Culturali
Una prima esplorazione di verifica, preceduta dal provvedimenti di rito, fu effettuata ne 1982; 1989 s stati realizzati an nualmente scavi sistematic risultati conseguiti finora hanno confermato l'enor me del sito intuito peraltro sin dal primo sopralluogo. Si tratta di un insediamento di epoca protostorica (la frequentazione dell'area sembra protratta al VII secolo a C.; poco è dato sapere sulle fasi riori, articolato in due settori: una fascia che corre sul costone Zona B) parallela al litorale, nella quale sono stati aperti alcuni quadrati saggio che lascia no successione di capanne contraddistinte da almeno tre fasi tali; una zona mediana (zona A), nella si è soffermata l'esplorazione negli u quale timi anni. Intanto è stato individuato il limite sud-occidentale dell'area occupata dalle capanne, costituito, per un tratto, da un muro che prosegue verso No inne- standosi su un fossato non molto regolare.
L'area abitativa è ottenuta eliminando il terreno vergine in modo che il piano delle capanne risulta ribassato, rispetto al piano di calpestio di circa 30-50 cm. Lo strato archeologico è di spes sore ridotto, ciò evidentemente per il fatto che tale area è stata sottoposta, in tem pi piuttosto recenti, a sbancamenti e spianamenti di superficie che hanno elimina to lo strato superiore; si ricorda che nel corso dell'ultimo conflitto mondiale la zona è stata adattata a postazioni di truppe; non pochi sono gli oggetti, rinvenuti nello scavo, riferibili a questo avvenimento
Le capanne sono a pianta rettangolare absidata; le pavimentazioni sono prlentemente in concotto, ma non mancano strati di lastre irregolari o strati ben com strati di di ceramica opportunamente frantumata; per gli esterni si utilizzano invece ghiaia frammista ad ossa di animali e, immediatamente a ridosso delle pa reti delle capanne, sacche continue di caolino evidentemente per esigen ze di impermeabilizzazione. Non è stato possibile ancora chiarire l'articolazione dell'ingresso, anche se alcuni indizi non farebbero escludere la presenza di un por tico. Le pareti erano ottenute rivestendo l'intelaiatura canne con consi enti di intonaco materiali mobili recuperati sono numerosissimi e vanno dalla ceramica di impasto per lo più non decorata, a quella, molto meno frequente, di argilla de con o senza decorazione geometrica.
Non mancano vasi da derrate: in alcune sono essi sono stati rinvenuti infissi nel pavimento lungo la parete della capanna: noltre presenti fuseruole, pesi da telaio, fornelli ed oggetti d'u genere semi e le numerosissime testimonianze faunistiche completano la ricchezza di formazioni che questo scavo la conoscenza della comunità protost in insediata in questa parte del litorale adriatico estremamente de farebbe.
Le caratteristiche de (materiali situ dei manufatti particolare escludere la possibilità di una conservazione in induce tuttavia riflettere significatività storica unico finora di un museo laboratorio, che sulla opportunità di elaborare in futuro progetto tenga conto della esigenza d illustrare didatticamente la storia del sito attraverso varie di frequentazione; si tratterebbe di lasciare in situ resa comprensibile anche attraverso ricostruzioni, di questa primitiva forma di sediamento La grande estensione dell'insediamento e soprattutto la necessaria accortezza dello scavo, che richiede tempi ben più lenti se confrontati con lo scavo di un sito di epoca classica, non permettono di quantificare con precisione i tempi necessari al completamento dello scavo. Ref. Comune di Campomarino
Campomarino (Steisi Vogli)
Il Territorio di Campomarino è abitato sin dalla più remota antichità: risalgono infatti al IX-XVIII secolo a.C. i resti dell’insediamento scoperto nel 1980 in località Arcora. Distrutta più volte durante le invasioni barbariche, riuscì a risorgere ed a divenire centro di primaria importanza longobarda e normanna. Anticamente posta sul mare Campomarino dista oggi dalla costa un paio di km ma negli anni è venuta crescendo, a ridosso della splendida spiaggia, una località dotata di infrastrutture e servizi turistici di prim'ordine. L'afflusso turistico secondo dati dell'Ente Provinciale del Turismo anno 1995, consta di circa 100.000 presenze nel periodo estivo. Il paese oggi sorge su un piccolo sprone alla destra della foce del fiume Biferno.La storia ci tramanda che durante il medioevo la vita del paese fu molto travagliata: all’inizio del periodo Angioino, infatti, il paese apparteneva al feudo della famiglia d’Alneto, poi nel XV secolo, passò sotto il dominio dei Monforte per essere successivamente donato da Cola Monforte alla Corte Regia. Il paese era rimasto duramente danneggiato dal terremoto del 1456 ed il feudo era divenuto quasi deserto: nel XV secolo però questo venne ripopolato dai profughi albanesi, costretti a lasciare la terra natale a causa dell’avanzata dei turchi nei Balcani. Nel 1466, infatti, fu raggiunto da Albanesi in fuga dai Turchi, e conserva di quella popolazione antichi usi ed il tipico dialetto albanese. Correvano gli anni che vanno dal 1461 al 1470, Giorgio Castriota Scanderberg (principe di Krujia Albania), inviò un corpo di spedizione di circa 5.000 albanesi guidati dal nipote Coiro Stresio in aiuto a Ferrante I d'Aragona nella lotta contro Giovanni d'Angiò. Coiro Stresio sgominò, il 18 agosto del 1461, a Lago di Sangue, posta tra Greci, Orsara di Puglia e Troia, le truppe partigiane di Giovanni d'Angiò guidate da Piccinino.Le popolazioni quindi, ed anche Campomarino, subirono quella che fu nella storia delle colonie albanesi in Italia, la terza migrazione. Per i servizi resi, furono concessi al principe Scanderberg diritti feudali su Monte Gargano, San Giovanni Rotondo e Trani e fu concesso ai soldati e alle loro famiglie di stanziarsi in ulteriori territori. I coloni albanesi rifondarono le terre e vissero convivendo pacificamente per lungo tempo con la popolazione locale. Dopo vari Governi, tra cui spicca quello del conte Manelfrido dal 1503 il potere passò alla famiglia Di Sangro, la quale fu l’ultima titolare del paese prima dell'abolizione del feudalesimo.Gli abitanti si chiamano Campomarinèsi. La chiesa di Santa Maria a Mare è la più importante del paese: essa fu costruita tra il XII ed il XIII secolo in stile romanico e restaurata nel 1710. I Resti più antichi sono gli absidi e la cripta appartenenti alla prima costruzione: nella cripta sono stati impiegati anche degli elementi romani di spoglio, tra cui dei capitelli con motivi vegetali; in essa si trova inoltre un affresco quattrocentesco raffigurante San Nicola e San Demetrio, quest’ultimo ritratto mentre combatte contro un turco.
Ref.http://www.comune.campomarino.cb.it/zf/index.php/storia-comune/// Lungo i tratturi – Un Viaggio per i sentieri della Transumanza (Kristiana Meço) L’Enaip Molise – É un progetto per indirizzare i giovani nel turismo ambientale. La Trazumanza nel Mondo Mediterraneo Le migrazioni rappresentano uno degli spettacoli piu impressionanti della natura che oggi possiamo con anno, milioni di animali, per terra, mare e aria si spostano da un posto all'altro. Questi viaggi sono una risposta biologica alla sopravivenza. Nelle aree geografiche dove il ciclo annuale e' caratterizzato dall'alternanza di stagioni climatiche facvorevoli che lasciano il passo ad altre chiaramente ostili, e' possibile pensare, solo ad un' occupazione del territorio temporanea. Nel mondo mediterraneo le oscillazioni climatiche non sono eccessive anche se esiste una forte oscillazione termica tra inverni freddi e lunghi ed estati asciutte e calde. per questa ragione gli spostamenti degli animali a quote differenti sono abituali dato che permettono l' utilizzo di pascoli in ottime condizioni, in relazione alle diverse stagioni. Questa migrazione e' stata cosi' importante in questi secoli che ha configurato una cultura pastorale peculiare: la transumanza. Quando si analizzano i diversi sistemi pastorali si scopre facilmente che, al di sotto di un'apparente uniformita' esterna si riscontrano numerose sfumature che li rendono diversi l'uno dall'altro. Sono varianti che dipendono dalle diverse condizioni locali. Non ci sono due pastori ogni pa ogni regione. ogni razza di animale… ha un suo pastore specifico. Le culture pastorali, inoltre, sono stabili nel tempo, piuttosto rispondono a variabili geografiche. biologiche e storiche che le mode poco a poco in forme diverse per ogni tempo e luogo. Fatta questa precisazione, ci azzardiamo ad affermare, in ogr caso, che la cultura pastorale denominata transumante, e' una dell caratteristica che definisce i paesi che si affacciano sul Mediterraneo Dando per scontato che la transumanza e' un fenomeno complesso possiamo definirla in modo semplice come uno spostamento verticale delle mandrie e dei suoi pastori dalle fresche erbe estive delle nmontagne, verso i pascoli invernali che crescono nelle pianure temperate a quote piu' basse E' un viaggio di andata e ritorno che si realizza due volte all'anno e che converte i pastori transumanti in eterni vagabondi condannati a cercare in ogni momento la miglior erba e l'acqua piu' pura per le loro bestie Questo sistema di vita pastorale che degfiniamo come tipico del mondo Mediterraneo si puo' contemplare ancora oggi in belle regioni della Spagna, Francia, Gregia, Italia e paesi del Nord Africa. E delimitato al nord da allevamenti di tipo alpino e al sud dal nomadismo delle steppe africane. Per secoli la maggior preoccupazione dei pastori del nord Europa era quella di evitare che i greggi stranieri, quasi sempre in stato semi-selvatico, invadessere i loro pascoli. D'altra parte, il nomadismo che ancora sussiste in forma residuale nei paesi del sud e dell'est del Mediterraneo, presenta molte caratteristiche che lo accomunano alla transumanza: lunghi percorsi e mobilizzazione di genti e greggi. Non si mobilizzano mai, pero', grandi quantita' di mandrie, ma pochi animali di diverse specie Arduo compito sarebbe tentare di scoprire le remote origini della cultura pastorale transumante Poco a poco cominciava a controllare gli spostamenti delle grandi mandrie di animali selvtici a loro riproduzione. Questo lento processo terminava con l'addomesticamento di alcuni di questi: era nato forse il mestiere piu' vecchio del mondo, il mestiere del pastore L'uomo si serviva dei primi animali addomesticati per ottenerne la lana e la pelle con cui vestirsi e il latte e la carne con cui alimentarsi Con le ossa e le corna fabbricava le armi e gli utensili. Presto comprese che poteva utilizzare anche lo sterco dei greggi per favorire la crescita delle piante e l'uomo scopri' un altro quello dell'agricoltore. Per millenni l'agricoltura e l'allevamento camminarono insieme. Verso l'anno 7.000 a C. l'uomo addomestico' il cane che divento il suo piu' stretto collaboratore. Un po' piu' tardi, nella zona degli Urali, secondo molti storici, nacquero gli antenati dei nostri ovini domestici dall' addomesticamento del caprone selvatico. Dall'oriente dove ebbero inizio questi processi, la pastorizia si estese lentamente verso l'Europa lungo le coste settendrionali e meridionali del Mediterraneo. All'inizio dell'era cristiana l'allevamento ovino occupava un posto importante nell'economie greca e italiana. In Italia, Francia e Spagna disponiamo di reperti archeologici che ci permettono di affermare che la pastorizia nomade esisteva gia' fra i popoli pre-romani: pitture rupestri che rappresento uomini e donne . LA TRANSUMANZA NEL MOLISE La transumanza, o pastorizia trasmigrante, e' stata largamente presente nel Molise, di cui ha l'economia, i costumi, la cultura, il paesaggio e le stesse leggi del movimento e dell'insediamento che presiedono all'assetto generale del territorio. Da quando e' presente? IN EPOCA SANNITICA Sicuramente la praticavano i Sanniti, che popolavano la regione quando essa era Sannio “Durante l'estate utilizzavano i pascoli situati a sorprendenti altezze sul livello del mare, durante l'inverno i Sanniti percorrevano coi loro greggi lunghe distanze per raggiungere zone di pascolo in pianura. E' nota la pratica della transumanza”. Questo scrive E. T. Salmon, uno dei maggiori studiosi del mondo sannitico, nel suo libro “Il Sannio e i Sanniti”, Einaudi, Torino 1985. Ma del rapporto dei Sanniti con la transumanza una testimonianza eccezionale viene dall'archeologia. Ai del Matese. nel sito dove oggi e stata scavata la citta' piedi romana, i Sanniti, nel IV secolo A.C., organizzarono un centro di accoglienza e trattenimento per le mandrie in transito, della via che dalla Sabina portava alla Puglia con l'altra. Adriatico-Matese. Il centro aveva strutture adibite a riposo, a ristoro ed a scambi commerciali, ed era protetto da una palizzata di legno che fungeva da recinto protettivo. Si tratta della piu' antica “stazione di servizio” ubicata lungo una via di grande comunicazione! DOPO IL MILLE Dopo il Mille il fenomeno torna sulla scena. Normanni e Svevi ri lanciano la transumanza offrendo, oltre alla stabilita' politica nell'area meridionale interessata (Abruzzo, Molise, Puglia, Campania e Basilicata), norme aggiornate ed adeguate: basti citare per tutte la Costituzione“ normanna e la “Mena delle pecore in Puglia” degli Svevi. Il grande salto della transumanza nel Molise avviene pero' con gli Aragonesi, che riformarono il settore di sana pianta, emanando una apposita legge nel 1447 dal titolo “Prammatica sulla Dogana della mena delle pecore in Puglia Il programma aragonese e' aperto, moderno e coraggioso. Contiene provvedimenti di miglioramento del bestiame mediante l'importazione di pecore merinos dalla Spagna e la promozione commerciale di tutti i prodotti legati al settore attraverso la Fiera di Foggia ed altre agevolazioni alle imprese zootecniche e agli acquirenti: riserva poi privilegi veri e propri al mondo della transumanza come quella del foro speciale, autonomo rispetto ai tribunali ordinari. Tutta la gestione venne affidata ad una struttura pubblica, con sede a Foggia, che provvedeva ad affidare i pascoli e ad esigere i tributi. La struttura si chiamava “Dogana ufficio preposto alla ed era fiscale delle Greggi entrata e uscita dai pascoli Pugliesi, diversa ture europee del se re, compresa la Dogana pecudum a da Bonifacio IX nel 1402 e aboli saliti aveva porta nelle casse della Chiesa-istituzione forti MESTA nel xvi secolo a ben 40 mila ducati l'anno. La stessa di ogni spagnola, emulata in piu' punti, come hanno scritt studiosi 794; tempo (De Stefano, nel 1731: Patin nel 1783: Galanti, nel Bianch m “Storia delle Finanze delle due Sicilie”; Luigi Blanch, nel 1817). rimase un'organizzazione di natura privata, ria, oggi si direbbe “sindacale che s nata nel 1273, aveva ricevuto poi il riconoscimento da parte dell'autorita statale. Dogana, invece, fu modello tutto italiano e La tradizionale disciplina pubblica meridionale, innestato alla e arricchito del settore risalente al periodo romano dall'esperienza spagnola. Se la MESTA quale organizzazione privata aveva fatto ricchi i privati, la Dogana doveva essere strumento del pubblico erario in un misto di patrimonio animale privato, di pascoli pubblici forniti a pagamento dallo stato e di politiche governative con facilitazioni ad ampio ventaglio (per evitare speculazioni dislocate lungo i tratturi, persino i prezzi della ristorazione erano regolati, sotto il controllo dei Deputati, rappresentanti della classe pastorale) In particolare, poi, l'attenzione aragonese si rivolse alla viabilita' legata agli spostamenti delle mandrie. Un forte impulso al settore voleva significare a tempi brevi e medi un incremento del volume di traffico sulle piste armentizie, che vennero subito potenziate. In questo periodo compare il termine “tratturo” in una istanza rivolta da un cittadino al Re: perche' i tratturi erano “beni reali del Pricipe”, il quale ne riservava l'uso quasi esclusiva mente ai conduttori di greggi iscritti nei registri della Dogana di Foggia, una iscrizione divenuta obbligatoria per i proprietari con oltre venti pecore. Nacque, cosi', una rete viaria tra l'alto Abruzzo e la Puglia il cui sviluppo complessivo andava oltre i tremila chilometri, con un ordine di importanza che vede al primo livello i tratturi, al secondo i tratturelli, al terzo i bracci. I primi erano un po' gli assi portanti del sistema: andavano pre valentemente nel senso nord-sud e per funzioni e larghezza Rappresentavano un po' le autostrade dell' e guardrail termini lapidei ai lati invece del con l'erba al posto l tratturelli si intrecciavano con i tratturi, erano molto pi stret e ano bracci (m. che, come bretelle d raccordo,portavano ai cascinali e ai prati pascolo. l tratturi stavano pertanto alla transumanza come l arterie al co umano ll Molise non solo deteneva buona parte di questo sistema ma rappresentava il punto di passaggio obbligato e grande della transumanza i monti della Campania matesina e la Puglia, svolgendo in tal modo un ruolo determinante e insostituibile nell'intera area centro-meridionale della transumanza italiana Dentro la transumanza e attorno ad essa si accesero poi tanti teressi di natura artigianale, industriale. commerciale, eccetera, che fecero dei tratturi non meri corridoi di scorrimento, bensi' degli a attrezzati lungo i quali si concentro il movi mento e l'insediamento Anzi, nei millenni. Perche' ancora oggi e' possibile nei seco “leggere” nel territorio c stratificatesi ai lati di queste antiche vie che fecero gran parte della storia di questa regione e del Meridione italiano. E non solo del Meridione. Sabatino Moscati, accademico dei Lincei, ha detto che i tratturi sono “un genere di strade caratteristiche e fondamentali per comprendere la storia dell'Italia antica”. Su diessi i trovano cinte sannitiche con innesti di succesivi insediamenti medievali, a loro volta alla base di strutture moderne e contemporanee. Ben oltre 70 sono i Comuni che in qualche modo sono legati ai tratturi nel Molise, tra i quali vanno ricordati Campobasso, capoluogo della Regione, Isernia, capoluogo di provincia, e Boiano, centro chiave dell'avventura sannitica dall'inizio alla fine, importante Municipio romano, Contea medievale capostipite dell'odierna regione La particolarita' del Molise rispetto alle altre regioni della transumanza sta poi nel fatto che in questa regione la rete tratturale copriva l'intera area regionale. Carta dei tratturi del XVI secolo particolare nei comuni di Roccamandolfi, Frosolone, Vastogirardi e Capracotta. I locati godevano di una solida posizione economica e sociale. Alcuni di essi riuscivano ad emergere proponendo dimore architet tonicamente e stilisticamente pretenziose, spesso simboli di potere esercitato in modo diretto o indiretto sulla comunita Attorno ai locati ruotava poi una nutrita schiera di sudditi fatta di pastori e pastoricchi, di butteri e butteracchi, di manovalanza generica, di servitu e coordinata dal massaro, factotum del padrone. I locati anche nel Molise non sono rappresentati solo da impren ditori laici. Numerosi, infatti, furono i locati costituiti da religiosi. Le istituzioni pie del Molise nel corso dei secoli XVII e XVIll. per ottenere le locazioni a pascolo, denunziavano alla Dogana di Foggia una quantita' di pecore che in qualche anno supero' le 77 mila unita Alcune istituzioni si trasformarono addirittura in finanziarie: a oratorio Capracotta, la Chiesa Madonna di Loreto, nata come modesto nel sorta opera dei pastori che in quel sito si radunavano per prepararsi partire si concentravano al ritomo a per la Puglia. LA TRANSUMANZA OGGI Cosa resta di tanto patrimonio materiale e spirituale? Sicuramente un fenomeno come la transumanza non poteva non segnare in modo indelebile costumi e cultura di un popolo. Per il re sto, salvo poche mandrie che fanno il tragitto prevalentemente in automezzo tra i monti di Roccamandolfi, Capracotta, Frosolone e la Puglia (una sola di Erosolone continua la tradizione a piedi va preso atto che la transumanza come fenomeno ha concluso da tempo la sua parabola discendente, iniziata due secoli fa con l'avvento dell'industrializzazione e la prevalenza dell'agricoltura sulla pastorizia, specie quella trasmigrante. Il colpo di grazia, dopo la legge 75/1806 di Giuseppe Bonaparte, venne dalle tre leggi del neonato Parlamento italiano 28 febbraio 1965, 7 luglio 1868, 7 marzo 1871 con le quali “i molteplici Pochi, se si considera che nel resto delle terre della transumanza centro-meridionale i tratturi sono sostanzialmente scomparsi Oltretutto, essi conservano nel Molise il fascino di una volta, fatto di silenzi eloquenti e di acque pure, in alternativa alle densita' urbane. E' possibile percorrerli solo con i mezzi di allora: a piedi o a cavallo. Quasi per ricordare al viandante dell'era della fretta che riassaporare un po' di ozio e di lentezza fa bene al corpo e allo spirito Probabilmente anche alla tasca! IL TURISMO EQUESTRE E I TRATTURI L'insieme dei Tratturi molisani costituisce una rete viaria ideale per i viaggi a cavallo, siano essi di lunga percorrenza o semplici passeggiate di poche ore. Purtroppo, oggi, non tutti i Tratturi sono percorribili perintero essendo scomparsi alcuni tratti per colpa dell urbanizzatrice dell'uomo o per semplice reversione naturale dovuta allo scarso utilizzo. Tuttavia. anche grazie alla possibilità di deviare dai Tratturi su tratturelli secondari su mulattiere. su vie interporderali o, semplicemente, sulle estese praterie libere, il territorio altomolisano percorribile con estrema facilità ed ogni angolo è raggiungibile a cavallo. Nell'indicare una serie di percorsi di maggiore interesse, naturalistico e storico-archeologico, abbiamo considerato sempre come assi principali i due Tratturi maggiori che attraversano la parte settentrionale della Provincia di Isernia: il Celano-Foggia e il Castel di Sangro-Lucera. Percorrendoli separtamente è possiblile effettuare due lunghi viaggi a cavallo che offrono numerosi motivi di interesse, non solo per quanto relativo alla piacevolissima equitazione di campagna. Principalmente, per le numerose attrattive paesaggistiche. archeologiche, culturali e storiche Abbiamo preferito omettere la descrizione dei due viaggi lungo i Tratturi, in quanto la stessa avrebbe richiesto uno spazio eccessivo Abbiamo, invece, preferito individuare una serie di deviazioni d Tratturi, ipotizzando sempre la percorrenza degli stessi, che offro ciascuno separatamente, motivi di grande interesse e abbiano descritto seppur sommariamente, le caratteristiche del percorso e le maggiori attrattive Occorre specificare che non esiste ancora una rete di infrastrutture di servizio per il turismo equestre in Alto Molise ma che, con l'appoggio e l'esperienza dei centri e delle associazioni funzionanti, è possibile trascorrere giorni interi a contatto con la natura e con il cavallo trovando anche ottima ospitalità e buona cucina. Ermal Hoxha Matteo Giorgio Di Lena GLI ALBANESI DI MONTECILIFONE Ristampa, con matrici originali della publicazione del 1972 a cura di Don Franco Pezzotta Parrocchia S. Giorgio Martire Montecilfone CAPITOLO PRIMO GLI ALBANESI DEL MOLISE (Immagine) 1 - Il problema delle fonti storiche Notizie ben documentate sulla venuta degli albanesi nel Molise non ne abbiamo forse non ne mai, dopo e la distruzione dell'Archivio di Stato in Napoli, avvenuta nel 1944 (3). L'italo-albanese Domenico Zangari notava la tendenza di molti scrittori arbresh ad accogliere e propagare notizie infon. date sull'origine dei loro paesi; poi aggiungeva: “Molto più sennato il Rodotà, il quale, dopo aver detto, che l'epoca del loro passaggio non poteva generalmente fissarsi, perchè vi si effettua ora in pochi, sotto o senza la guida di ora in molt qualche capitano, conclude essergli riuscito difficile fissare la data particolare della venuta degli albanesi e dei greci nelle nei castelli e nelle città, e molto più del cambiamento del rito non perchè sien perite, ma perchè non sono mai state registrate da queste memorie” (4) Allo stato attuale delle cose, qualche notizia documentata sugli Albanesi, al tempo delle migrazioni, possiamo averla solo dagli Archivi della Repubblica Veneta. Dai loro documenti veniamo a conoscere interessanti noti ui rapporti dei Signori italiani coi Signori albanesi e coi sudditi di questi ultimi. Agli albanesi minacciati dai Turchi, Venezia dava incorag e soccorsi e comunque garantiva sempre un sicuro e decoroso rifugio in terra veneta (5). Qualche volta Venezia favoriva l'emigrazione di albanesi per ripopolare un centro di strutto oppure a scopo di difesa militare (6). Si aveva anche il caso di emigranti albanesi isolati. Venezia obbligava a passare l'Adriatico solo su imbarcazioni venete (7). Gli emigranti, non avendo il denaro per il passaggio, si impegna 1388 il Senato vano a servire la Repubblica per quattro anni. Nel Veneto notava che questi emigrati albanesi erano pastori o con tadini, poco utili come domestici o artigiani in uno Stato che non basava la sua potenza sull'estensione fondiaria; pertanto a questi poveri albanesi il periodo del servizio veniva aumentato fino a anni (8). Ma erano liberi di emigrare, gli Albanesi? Teniamo presente che nel mondo medioevale uno dei vincoli più forti di un suddito era di non potersi allontanare dal suo Signore. Ma pare che i Signori albanesi avessero piacere che i loro sudditi emigrassero ogliendo bocche da nutrire a una terra piccola e avara; cercavano perciò di ottenere per i sudditi libertà di migrazione e di passaggio in Italia (9). 2 - Migrazioni di albanesi nel Molise Queste notizie sono utili per conoscere le condizioni alle quali, analogamente, dovettero sottostare gli emigrati albanesi nel Molise. Anzitutto teniamo presente che i paesi albanesi in provincia di Campobasso fino al 1811 fecero parte della Pu glia Ora, già nel 1393 è documentata la presenza di albanesi in Puglia Nel Basso Molise già pugliese è pure documentata l'esistenza di un casale albanese, sito a tre chilometri da Monte-cilfone, nel 1454. Si tratta di Torre Francara, della quale restano ancora i ruderi. Scriveva lo storico Magliano Viene notato questo casale fra gli altri concessi nel 1467 a Napoleone Orsini. fuochi 88 ed era abitato dagli Albanesi come si legge nel libro singolare di entrate dei baroni per l'anno 1454” (12). Poichè nel 1454 l'Albania era, nel complesso, ancora libera dal dominio turco, è probabile che gli albanesi di Torre Francara fossero non già esuli sfuggiti ai Turchi, ma piuttosto uomini di arme, al servizio del Barone di Larino, signore del feudo d Torre Francara: ancora due secoli dopo, nel 1663, nel paese albanese di S. Leucio, distante poche centinaia di metri da Torre Francara, fra gli altri obblighi feudali, avevano gli abi tanti quello di somministrare al Barone la scorta di uomini, a piedi ed a cavallo, che a lui abbisognasse per recarsi in Napoli” (13). Del resto, come uomo d'armi Italia, proprio in era venuto proprio nella metà del secolo XV, lo stesso albanese Skanderbeg nelle guerre per il possesso del Regno di Napoli. In ricompensa dei servizi resi agli Aragonesi, lo Skanderbe Qui perpetuo i feudi di Trani, Siponto e S. Giovanni Rotondo. a Giovanni Castriota, figlio di Skanderbe dopo la caduta dell'Albania sotto il Turco (14). 3 - Gli Albanesi e il servizio militare Sappiamo che, anche prima dell'emigrazione in Italia, molti Albanesi vivevano arruolandosi al servizio di una potenza stra niera. Così i temuti potentati locali dell'entroterra durazzino Comino Spata e il Conte Niceta che si offrono con 100 cavalli e 1.000 pedoni per il modestissimo stipendio di 1.200 iperperi forse pensando integrarlo col bottino di guerra, com'era l'uso comune d'allora, anche, e in particolare, delle milizie albane “Più si avvicina a un servizio di tipo personale e stanziale quello a cui, sempre volontariamente, s'impegnavano coi propri dipendenti i proniari contro concessione di terreni detti di pronia o provvisione, e più ancora gli stipendiati o stipendiari che, con tro paga, detta posto a cavallo o semplicemente cavallo, si obbli- gavano a servire solo personalmente in cavalleria nelle formazioni ponentine (cavalli alla latina) o in quelle levantine (cavalli alla greca o all'albanese)” (16). Nello stesso modo islamico, dopo la caduta dell'Albania sotto i Turchi, gli Albanesi sono sempre stati militari di profes sione, come gli Svizzeri nel mondo occidentale. Da quanto si è detto si può ritenere probabile che anche nel Molise gli albanesi si siano stanziati in seguito a Datti di pronia, come pare sicuro per gli albanesi di S. Leucio (1 Cos nel 1561, il vescovo di Larino dava il feudo di Ururi in pure enfiteusi a un capo militare albanese, il magnifico Capitano Teodoro Crescia, per lui e i suoi figli legittimi e discendenza in linea retta per l'annuo censo di ducati trecento” (18). Una cronaca manoscritta di aver descritta la dolorosa occupazione subita da questa cittadina opera delle truppe di Carlo VIII, aggiungeva: “Contemporaneamente una Colonia d'Albanesi venne a rifuggiarsi in Colleniso, la quale fu accolta nella contrada della Chiesa di S. Pietro (ta). Questa contrada è l'attuale Largo ei Greci, il punto più importante della difesa muraria di Guglio circoscritto dal V ico dei Grec via Santella. via Guiscardo nes e dal tratto della cerchia muraria detto Portello. La stessa deli- cata posizione assegnata agli albanesi proverebbe che essi furono chiamati a Guglionesi per motivi di difesa militare. Giovanna, seconda moglie di Ferrante II, era molto legata e di gratitudine. come prova agli Albanesi da vincoli di affetto anche il suo testamento Dal 1477 al 1507 ebbe come beni dotali varie terre e città; le principali di esse erano Guglionesi e Isernia. Non è improbabile, quindi, che la regina stessa abbia procurato una difesa armata al suo feudo principale, Guglionesi mandandovi un gruppo di albanesi: infatti, mentre tutti cerca vano di scansare questi ospiti turbolenti, perchè mai a Guglione avrebbero posti nel punto militarmente più importante? E significativo un altro fatto: in quegli stessi anni a Isernia, l'altro feudo importante di Giovanna, era stato posto come vescovo il nipote di Skanderbe g, Costantino Castriota. L'anno 1507 Guglionesi passava in possesso del duca d Termoli, Andrea di Capua-Altavilla; egli aveva ai suoi ordini un piccolo esercito ben addestrato, che poteva ben sostituire gli Al banesi nella difesa di Guglionesi (22). L'anno seguente, infatti, il gruppo albanese di Guglionesi fu mandato a ripopolare il casale desolato di Montecilfone. Lo stesso Andrea di Capua, dopo aver acquistato il Casale di Campomarino, nel 1495, si era affrettato a ripopolarlo, fon dandovi una colonia albanese E presumibile che abbia opera- nella stessa maniera nel suo casale spopolato di Portocannone, ai primi del secolo XVI. Ce lo conferma quanto scrive il Ciarla Nel catasto poi del Pred. suddetto degli anni 1512 nel F. 39 sotto l'introito di carlini 11 a fuoco esatto da Greci, Alba nesi e Schiavoni. si vide tassata Portocannone per fuochi 7” (25). Quanto alla colonia albanese di Ururi, sappiamo, per testi monianza di mons. Tria, che essa fu fondata nel 1465 (vivente ancora Skanderbe. g), sotto gli auspici di Monsignor Antonio de Misseriis, vescovo di Larino. Questa fondazione fu dovuta al desiderio del vescovo di mettere valore il casale desolato di in Ururi, feudo della Mensa vescovile di Larino Sono significative le parole di un decreto di Gioacchino Il beneficio delle abitazioni è principalmente ridondato Murat: messo in valore le loro terre, in favore degli ex baroni, che hanno altre prestazioni sulle perso e che hanno riscosso una quantità di 21 ne e sull'industrie dei nuovi coloni che più specialmente pesavano sulle colonie greche e albanesi, alla sorte delle quali Noi vegliamo con special cura” (27). 4 - Carattere etnico degli albanesi del Molise Nel 1746 monsignor Tria notava che gli albanesi nel Mo- lise conservavano ancora i loro costumi, come se allora fossero Ancora oggi essi hanno delle caratteristiche sbarcati in Italia comuni, che spesso li fanno distinguere dagli italiani dei paesi vicini. Hanno un'intelligenza viva e acuta, analitica ma anche al quanto dispersiva. Sono facili agli entusiasmi e agli abbattimenti Talvolta sono di un individualismo esasperato, che li porta solo a formare fazioni che facilmente si compongono e si scompon ono. Sono cordiali e ospitali col forestiero ma sensibilissimi ai orti che ne possono ricevere; sono anche molto sensibili alla lode e al biasimo. Amano il parlare breve e arguto, al quale li porta l'indole stessa della loro lingua, asciutta e tutta nerbo: Gljuha arbreshe isht bekur i nxet tc dogii zemr e nge leri hit (La lingua albanese è ferro rovente: ti bruciò il cuore e non lasciò la cenere). dice un canto popolare di Montecilfone. Gli albanesi del Molise sono indifferenti, in genere, riguardo l problema religioso. Il professor Giuseppe Ferrari, dell'Università di Bari, mi faceva notare un fatto significativo: in tanti secoli di dominio turco sulla Grecia e sull'Albania, in Grecia non ci sono state conversioni all'islamismo; in Albania, dopo una gene razione, erano tutti mussulmani. Oggi poi l'Albania si è procla- mata con orgoglio il primo Stato ateo del mondo. Gli albanesi del Molise, nella generalità, quando sono sin- ceri, mostrano al massimo di credere in un Ente supremo; la loro vita è diretta da concetti tutti umani: lo nderi (onore), la (fedeltà alla parola) che si traducono nell'affermazione orgoiosa della propria personalità e talvolta nella vendetta. Gli arbresh el Molise hanno un vivo amore per la lingua ei loro padri. Questa lingua, tra essi, presenta alcune varietà dei dialetti toschi: così sono chiamati i dialetti albanesi parlati n Italia, in Grecia e nell'Albania a sud del fiume Shkumbi (29). E anche molto vivo l'orgoglio della stirpe che qualche volta può apparire un razzismo larvato. Il disprezzo che i Letini (Latini) appare anche in detti proverbiali: Leti benur me skajparin Latino fatto con l'ascia) o Derk e Leti, mos i mesoj mbe shpi (Porco e Latino non avvezzarli alla tua casa Al contrario, c'è un grande rispetto per il giaku jon i sprishur lil sangue nostro disperso) cioè per tutta la stirpe albanese; questa espressione è anche una forma comune di saluto tra italo-albanesi di diverse comunità. L'orgoglio del sangue è caratteristico di tutta la stirpe albanese: è la difesa psicologica di una minuscola comunità che è sempre vissuta in stato d'assedio tra popolazioni più numerose e più forti sotto ogni riguardo. È lo stesso orgoglio del poeta albanese (in lingua turca) Yahya di Plevlje (1575), che scriveva: “La mia origine è albanese, la mia stirpe è usa se a vivere della propria spada. Non è meraviglia se quel nobile popolo vive annidato tra rocce, come i falconi. Per chi sia di stirpe albanese questo è un pregio come per le gemme l'esser racchiuse da pietre”. CAPITOLO SECONDO DALLE ORIGINI DEL PAESE ALLA VENUTA DEGLI ALBANESI 1- Resti di epoca antica a Montecilfone Sul colle detto Casalvecchio, a nord-est del paese, sono ancora evidenti i resti di un insediamento antico; vi si vedono tracce di abitazioni e vi è stato trovato un ossario dalle pareti rivestite di grosse selci e numerosi vasi di terracotta friabile di tipo antico, lampade di terracotta nera di finto bucchero e vasetti feroidali portaprofumi. Tutto intorno sono ancora visibili le tipiche grosse tegole romane, rettangolari e dall'orlo rilevato. Numerose tombe, coperte di queste tegole, sono state tro wate molto frequentemente in varie zone dell'agro di Montecil n contrada Carrozza, alle Morge, nella vigna dei fratelli fone D'Inzeo e altrove. I reperti più importanti vengono dalla zona detta Çumtiri dai terreni sottostanti, già degli Antonelli ed ora di proprietà di Pasquale De Luca. Nel 1925, nello scavo di una vasca, vi si trovò una bambola d'argento e un cavallino di bronzo. Vi si trovò, poco lontano, anche una statuetta di bronzo rappresentante una prae seduta, viso sul destro e con un panno ricadente braccio sinistro: accanto a questa statuetta si trovò con una cinquantina di monete d'argento di Caligola, imperatore romano dal 37 al 41 dopo Cristo. Nel 1969 enne fuori dallo stesso terreno, per lo scavo di una ruspa, lapide romana mutila e frammentaria un altro pezzo della lapide fu nell'estate de 1972, e completa quasi tutto il testo dell'iscrizione, che qui si riporta: D.M.S. BVITIAE. CYCLADI BVITIA. DYMANTIS FILIAE. SEVERVS CONSERVVS. CON IVGI. B. M. P CVM. QVEM. VIXI [ S ] INE. QVERELLA [ A ] N. XXV. M. I …………………. La lapide ha forma pentagonale; sulla cuspide è scolpita un'elegante ghirlandetta sul fianco destro è scolpita una broc chetta e sul sinistro una patera (piatto concavo). Tutti questi dati provano chiaramente che la zona di Mon- e doveva ospitare un abitato, almeno in epoca romana. 2- Montecilfone nell'epoca medioevale Mentre i reperti di epoca romana sono assai frequenti nell'agro di Montecilfone, non si trovano resti dell'epoca medioevale. “Nei più remoti documenti questo Comune è detto Mons scriveva il Masciotta (si). Egli il torto di fare raramente riferimento alle fonti (s) e pertanto ignoriamo l'eno ca di questi remoti documenti. Tuttavia il nome Gilliani compare in nota alla copia di un documento del 1102, ad indicare una località prossima a Guglionesi, come è appunto Montecilfone. Nel 1276, tra le altre terre del Giustizierato di Capitanata vengono ricordate anche Montecilfone e S. Andrea di Montecel one, sui Registri Angioini S. Andrea di Montecilfone era una Grangia, ossia un fortino a difesa dei possessi di un ordine religioso cavalleresco (ara). Infatti il bosco di Corundoli, sede di questa Grangia, fu poi possesso dei Cavalieri di Malta e dipen- deva dalla loro commenda di S. Angelo in Palazzo, che aveva sede in Acquaviva. Nel 1295 i beni di questo convento passarono dal Monastero di S. Primiano (con sede a Larino) ai Cavalieri Gerosolimitani (poi detti di Rodi) e da questi passarono ai Cavalieri di Malta, nel secolo scorso, il comune di Montecilfone sostenne una lunga lite per la rivendica del bosco di Corundoli. Nei primi anni del secolo XIV Montecilfone era un ca un ca quale risiedevano un arciprete e vari clerici. La prima notizia feudale sicura risale al 1442 (12). Il vescovo Giannelli, narrando le vicende di Guglionesi, scriveva Nel l'anno 1442 l'Università con regio assenso di Alfonso I di Ara gona compro da Giacomo di Montagano li Casali detti Monteci one territorio detto Basitivo, e le fu la tenuta dal Re Ferdinando I 1458, e dalla Regina Giovanna seconda moglie del medesimo Monarca nell'anno 1480. Montecilfone era allora un piccolo casale di pastori, che il terremoto del 1456 abbattè al suolo e ridusse a informi rovine. Gli abitanti si rifugiarono chi a Palata, chi a Guglionesi, e l'agro per alcun tempo fu lasciato in abbandono. 3 - Il nome di Montecilfone Nei documenti più antichi si parla di Mons Gilliani, ora Giliantis era un nome abbastanza diffuso, durante il medioevo nell'Italia meridionale (13). Più tardi il paese venne chiamato anche nel secolo scorso si scriveva Montegilfone Però già nel 1328 è attestata la forma Mons Celfon (IR) e già nel 1608 si trova Moncilfone (0). È evidente che si tratta del tentativo di correggere un presunto errore, attribuito alla pronuncia dialettale molisana nella quale normalmente il nesso nc viene pronunciato ng. Scriveva il Masciotta che Gilliani e Gilfone sono nomi di sapore longobardo Non è improbabile che il colle abbia ricevuto il nome da un suo antico possessore di origine o di nome germanico. Un colle contiguo a quello di Montecilfone si chiama infatti Monte Ingolfo, nome indubbiamente germanico. Inoltre sono frequenti, nell'agro di Montecilfone e dei paesi vicini, i nomi di Fara, Farotta, Farozza, dati a contrade dove si vedono resti di antiche abitazioni; ora presso i Longobardi Fara era appunto detto un centro abitato (Fara Sabina, Fara S. Martino Fara Filiorum Petri). 4 - Tradizioni sulla venuta degli albanesi a Montecilfone Nel capitolo precedente si è visto come gli albanesi furono accolti a e posti nella contrada di S. Pietro. E an da si lungo tempo fussero stati ricevuti Epiro Albanesi in Regno, e accolti benignamente in diversi luoghi di questa Diocesi co tuttocio avvezzi alla vita militare dei loro non tralasciavano d'inquietare i popoli, predare e Antenati commettere scelleraggini”. La tradizione di Montecilfone riferisce che, durante la permanenza a Guglionesi, gli albanesi uccisero molti italiani per La tradizione di Guglionesi concorda con quell di Montecilfone. Un vecchio mi riferiva mio piccolo, nonno mi diceva che una gli albanesi stavano da cima e noi da paese. Gli furono mandati a Montecilfone perchè erano micidiali e uccidevano gli italiani. L'autore della già ricordata cronaca di Guglionesi, parlando albanesi accolti in quel paese, scriveva: “Dopo qualche tempo ricresciuti i cittadini, per le continue discordie co' paesani, ne furono cacciati, e situati nel casale di Montecilfone coll'assegnamento di quell'agro a' medesimi”. Nel 1618 la permanenza degli albanesi a Montecilfone era già considerata antica, poichè in un documento di quell'anno s egge: Si riserba detta Università, che li cittadini di Goglionesi e quelli di Montecilfone possino pascere colli loro Animali e Bestiami ad invicem nelli erritorii di esse Terre, cioè quelli di Montecilfone nel Territorio di Goglionesi, e quelli di Goglionesi nel Territorio di Montecilfone, come ab antiquo si è tra loro osservato. 5 - Tradizioni sulla fondazione della colonia La tradizione di Montecilfone ha serbato vivi alcun racconti di carattere leggendario sull'origine della colonia. Il gruppo albanese che la fondò veniva da luogo della Albania detto Mali Qiftit (Monte dell'Avvoltoio). Due famiglie, i arani e i Sinesi, si il dominio del gruppo albanese. La loro rivalità era cominciata nella drepatria il capo dei ma Farani aveva tagliato le mani a un bambino dei Sinesi, che aveva sorpreso a rubare pochi frutti nel suo orto, e gliele aveva legate ai polsi con un giunco. Per vendetta i Sinesi avevano uccisi sette tori, sette montoni e sette uomini validi dei (33). Ne nata una catena interminabile di vendette che divideva le fami glie dei Farani e degli Jerbs, loro servi, da quelle dei Sinesi, anes e dei Cudes (o Curdes) degli Hoves, che talvolta però parteggiavano per l'altra fazione. Giunti nell'agro di Montecilfone, gli albanesi lo trovarono coperto da una fitta sterpaglia. Contrariamente all'opinione dei Sinesi, i Farani proponevamo di restare su quel suolo roccioso e boscoso. Il popolo, stanco di lottare, decise di affidarsi al responso del cielo. Era il primo maggio e per il tratturo di Santa Maria nturelle passava una comitiva di pellegrini abruzzesi, diretti a santuari della Puglia. Il popolo li prego di chiedere a Nicola il Grande se fosse conveniente coltivare quel suolo e quale delle due famiglie dovesse avere il comando. Al ritorno i pellegrini riferirono responso del Santo: E si la terre cacce la brese (30), mora Farane e vengia Sinese; e si la terra cacce lu grane, mora Sinese e vengia Farane. Poichè il terreno si rivelò fertile di grano, il poter fu dei Farani. Si dice che la prima sede degli albanesi sia stata Casalvec- un'altura a nord-est del paese. Si aggiunge pure che questa sede fu abbandonata in seguito a un'invasione di formiche carnivore. 6 - La lapide detta di Re Giorgio Nel muro della vecchia farmacia in corso Skanderben, era murata, fino a pochi anni addietro una lapide; poichè era rovescio, non mi era stato possibile decifrarla, anche perchè era al assai consunta. I vecchi la chiamavano guri regiit Gjergi (la pietra di re Giorgio) e dicevano che era stata posta in quel punto nientemeno che da Skanderbeg, il re Giorgio Nella demolizione di quel la vecchia casa la lapide passò in possesso del dottor Italo Gallina e mi fu possibile trarne un disegno a ricalco: una fotografia non sarebbe stata leggibile. L'iscrizione probabilmente doveva essere posta sulla facciata della vecchia chiesa di rito greco, che ando demolita nel 1755 (3%). Le sue parole sono Ezechias indigentus sacerd (f) e (ci) t hoc opi (Ezechia, sacerdote di questo luogo, fece quest'opera). E HIASIN DI 3NVSSATERAD Guri regiit Gjergi (La pietra di re Giorgin 29 che gli Albanesi hanno sangue sono amanti su due delle tr freddo e Le posteriori vette dipinte nello stem Montecilfone, Corundoli e Casal. vecchio Il grifo volge la testa ad oriente, a guardare una stella a sei punte, che simboleggia l'Albania, lasciata con dolore dai nostri avi; questo dolore è indicato dalla freccia che trapassa la gola dell'aquila. La nobilità della stirpe albanese è indicata dalla corona che sovrasta la testa dell'uccello, APPENDICE TERzA COSTRUZIONI SACRE 1 San Giorgio Martire L'esistenza di questa chiesa è testimoniata dal 1618 Per quasi tutto il 1600 fu l'unica chiesa del paese. Nel 1690, ol- tre l'altare maggiore, aveva due altari dotati dai devoti e le sue entrate erano pochissime Tre anni dopo è scritto che questa chiesa era priva di arredi sacri e minacciava rovina; i due altari laterali (del Rosario e di Sant'Antonio Abate) non ricevevano offerte e vi si celebrava solo una volta al mese. I redditi della chiesa erano scarsi: poche offerte sotto forma di decime e due case da affittare. Il comune era tenuto a corrispondere alla chiesa un censo annuale: non solo non lo pagava più da ben sedici anni ma aveva pure venduto le vacche della chiesa. Il vescovo Michele Peti dovette costringere il comune ad assegnare alla chiesa un censo annuo di quindici scudi. Inoltre lo stesso vescovo stette a Montecilfone ben quindici giorni, per costringere la popolazione a restaurare il fianco destro della chiesa; se non avesse fatto cosi, la chiesa al certo a questo sarebbe una macerie di sassi (20a) punto Nel 1732 a chiesa risulta fornita di sufficienti arredi sacri e viene tenuta con la quarta parte delle decime dei raccolti le vacche della chiesa, per poterla restaurare. Nel 1755 il popolo penso di rifare la vecchia chiesa, sempre in pericolo di cadere. Fu bbattuta e venne ricostruita fino alla base della volta. Il vescovo sempre pratico, si diede da fare per esigere il denaro dai debitori della chiesa (30”) Nuovamente minacciò rovina e fu abbattuta nella prima metà del secolo scorso; le cose sagre van disperse per le Case Finalmente nel 1861 la chiesa veniva riaperta de' privati al Culto (3 È probabile che fosse ricostruita con notevole fedeltà alla forma dell'antica chiesa greca, perchè, ancora nel 1913, il Lam bertz vi trovava un resto dell'antica iconostasi (20') Altri restauri si fecero nel 1933, all'inizio dell'arcipretura di don Guido Vallivero; durante questi lavori andò distrutto quel che restava della vecchia iconostasi e anche molte immagini dipinte e scolpite, alle quali il popolo era molto affezionato Chiese scomparse Nel 1690 viene nominata per la prima volta in un documen- to la chiesa di San Rocco; doveva esistere da tempo, perchè in tale anno era chiusa al culto, per il fatto che le sue rendite erano state mal amministrate in passato. Era costruita fuori delle mura Nel 1693 le rendite di questa chiesa affluivano ancora scarse perchè vi si celebrava solo una volta al mese Nel 1753 monsignor Giannelli visitava questa chiesa: notava che era mal tenuta e che le sue rendite erano mal ammini strate ad opera di procuratori poco fedeli (313). L'anno dopo, lo stesso vescovo trovava la chiesa squallida, ac desolata »i eppure in essa si conservava provvisoriamente l'Eucaristia, perchè la chiesa madre era in riparazione Molte altre volte questa chiesetta sostituì la parrocchiale pericolante La chiesa di San Rocco fu abbattuta alla fine del secolo scorso, perchè minacciava rovina. La piazza che sorse al suo posto ancora chiamata Piazza San Rocco anche il quartiere che la circonda ha questo nome Verso la metà del 1700 esistevano a Montecilfone altre due cappelle, delle quali il popolo ha perduto pure il ricordo Nel 1753 v'era la cappella di Sant'Antonio di Padova, i suoi beni erano stati amministrati così male che le spese superavano le entrate. che V'era pure nel paese la cappella della Madonna del Rosario, non aveva rendite stabili ma riceveva molte offerte dai fede- (15). Alla fine del 1700 risultava ricca di ori e argenti, che poi furono dal re IV Borbone, per le necessità della guerra contro gli invasori francesi La facciata della Chiesa di S. Giorgio. CAPITOLO UNICO NOTIZIE DI GEOGRAFIA FISICA, ECONOMICA E ANTROPICA 1 - Descrizione geografica Montecilfone sorge sulla collina che porta lo stesso nome a 405 metri sul livello del mare. Dal 1811 fa parte del Molise mentre prima faceva parte della Puglia (ii). Il suo agro confina con quello di altri centri della stessa regione: a est Guglionesi, a ovest Palata, Tavenna e Montenero di Bisaccia, a nord Mont nero e Guglionesi, a sud Guglionesi e Palata, L'agro di fone ha una superficie di 3.263 ettari ed è compreso tra il 41 41” 40'' di latitudine Nord ed è a 2 26' 10” di longitudine Est dal meridiano di Monte Mario. Il suolo è di natura collinosa ed è formato da terreni del l'eocenico e, in parte, del miocenico, lungo il confine con l'agro d Palata Dal punto di vista geologico, si tratta di cristallizza zioni calcaree e di marna argillosa. La marna forma l'ossatura delle colline di Montecilfone. Presenta tracce di silicati di allu mina, sabbia quarzosa e massi gessosi cristallizzati. L'agro di Montecilfone è attraversato dal tratturo di Santa Maria di Centurelle, che parte da questa località, in provincia di Chieti, e arriva fino a Montesecco, in provincia di Foggia. 2 - Sviluppo urbanistico e tipi di abitazioni Un documento del 1618 notava che a Montecilfone le abitazioni sono al generale matte, e vi sono ancora alcune pagliara le quali servono anco per l'abitazione Il vecchio nucleo di Montecilfone è accentrato attorno alla chiesa di San Giorgio. Presenta vie strette, pavimentate a selci qualche arco. Nel 1850 Montecilfone era formata da 439 case. Nel 1882 veniva tracciata la carrabile Termoli-Palata e nuove case erano costruite lungo un tratto di tale strada, a sud del vecchio nucleo. Questo è composto di shpize (casupole) in genere mono o bicellulari. Alcune di esse ancora non hanno subito migliorie e restano un documento eloquente dell'antica povertà del paese: quattro pareti di pietre con gesso o fango. delimitano un quadrato di terra battuta di circa quattro metri di lato. Le mura non presentano finestre ma feritoia. A un angolo è addossata la vatra (focolare) alla quale è collegato un forno. Le dimore dei piccoli agricoltori sono bicellulari. La Stanza d'ingresso è un'ampia cucina, con focolare, forno e armadi a muro che possono contenere anche granaglie. L'ambiente giustapposto serve da stanza da letto. Gli annessi rustici, in ge nere, mancano. Dopo i primi anni del nostro secolo, quando si costruirono molte case con le rimesse degli emigrati i America, ci fu un arresto urbanistico. Solo adesso, stentamente, cè una ripresa nelle costruzioni, specialmente dopo che, decennio sono state installate fognature e la idrica Le cause di questo stentato sviluppo urbanistico sono parecchie: la povertà degli abitanti, l'emigrazione, lo scarso sviluppo demografico, la facilità di acquistare vecchie abitazioni, il po costo basso dei fitti. Ermal Hoxha CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE RICERCHE SULLE DIMORE RURALI IN ITALIA, VOL. 27 MARIO CATAUDELLA LA CASA RURALE NEL MOLISE LEO S. OLSCHKI EDITORE Novembre 1969 Firenze (Pg. 50-56) 4. Basso Molise – La fascia costiera del Molise, costituita in parte dalla sezione meridionale del subappennino Frentano ed in parte da quei rilievi collinari degradati verso il mare su qui corre l’incerto spartiacque del versante destro del Biferno, può essere delimitata verso l'interno dall'isoipsa di 500 m; essa pertanto include, oltre alla bassa valle del Biferno, anche parti dei bacini del basso Trigno e del basso Fortore (13). Per quanto riguarda le forme di insediamento è utile dividere la zona due aree: la prima, inserita nel grande sistema viario dell'Adriatico, corrisponde alla cimosa litoranea e conta centri in progressivo sviluppo ed un cospicuo numero di popolazione sparsa, specie nei territori comunali di Petacciato, Termoli, Campomarino, Guglionesi, dove la sua densità oscilla tra 10 e 40 abitanti per kmq; l'altra più interna, che comprende i terrazzi pliocenici, trae le sue risorse da un'agricoltura agonizzante ed è estremamente povera di popolazione sparsa, se si eccettuano i comuni di Larino e di S. Felice del Molise, di Montemitro, Tavenna ed Acquaviva, di Palata e Ururi dove essa può raggiungere una densità fino a 3 ab. per kmq. In sostanza l'insediamento vi presenta forti analogie con il medio bacino del Biferno, e cioè numerosi centri compatti in mezzo ad agri poco o niente popolati (come nella vicina Puglia) per riflesso della struttura della proprietà fondiaria e dei sistemi di conduzione. Tuttavia durante gli ultimi cinquant'anni si è registrato un certo aumento della popolazione sparsa: e anche l'emigrazione recente, che in questa zona è da considerare la principale responsabile della diminuzione degli addetti non sembra aver contratto l'insediamento sparso. Possiamo anzi dire che non di rado le rimesse provenienti dall'estero vengono investire per rinnovare attrezzi da lavoro e migliorare le abitazioni rurali. La principale causa dell'aumento delle case sparse è costituita dalla riforma fondiaria, che specialmente nella fascia litoranea, fa popolare di case le campagne. Estesi sono i comprensori della Bonifica Larinese, di quella a destra del Trigno e di la del Basso Biferno; ma la fascia del territorio dove più vistosi appaiono gli interventi dei centri operativi si protende dal mare fino alla linea Petacciato-Guglionesi-San Martino. Qui, oltre alle opere di bonifica idraulica, si è provveduto al l'impianto di colture ortive e di vigneti in piccoli appezzamenti, specie tra Termoli e Campomarino (14). A parte questi episodi di rinnovamento e di trasformazione, nella regione predomina la cerealicoltura, che talvolta giunge sino all'arenile, esercitando una azione limitativa nella diffusione dell'insediamento sparso e condizionando la struttura stessa delle dimore. (immagine) (Fig. 48) - Montenero di Bisaccia. Masseria specializzata nella coltura del grano e nell'allevamento bovino. Le case della riforma fondiaria vengono chiamate masserie, termine col quale nel Basso Molise è consuetudine chiamare tutte le case isolate nei campi, siano esse di piccole o di grandi dimensioni, di costruzione recente o antica. La struttura di queste case è molto semplice: generalmente si tratta di edifici a due piani con cucina e magazzino al pianterreno e le camere da letto a quello superiore; la scala è esterna. Talvolta la cucina è ubicata in un corpo spostato in avanti rispetto alla facciata dell'edificio ed è ricoperta da una terrazza recinta per lo più da parapetto e utilizzata per esporre al sole alcuni prodotti agricoli. I rustici sono separati dall'abitazione e risaltano per ampiezza i sili, le stalle e i cumuli troncoconici per la paglia, che qui di norma viene conservata all'aperto. (immagine) Fig. 49 - Portocannone. Una fattoria plurifamigliare. È visibile il porticato l’ampia concimaia antistante l’edificio. (immagine) Fig. 50 – S. Giacomo degli Schiavoni. Una casa dell’Ente di Riforma. (immagine) Fig. 51 - Ururi. Azienda bifamiliare di coltivatori diretti. Gli ammassi di paglia sono una prova della coltura prevalente del grano. (immagine) Fig. 52 - Ururi. Una casa del centro. Tra Portocannone e San Giacomo degli Schiavoni, dove specialmente nel passato dominava la grande proprietà fondiaria, trovano una certa diffusione edifici rurali abitati da più famiglie contadine (Fig. 49). La loro struttura riflette la monocoltura del grano associata all'allevamento bovino specialmente là dove non v'è scarsezza d'acqua. Queste fabbriche sorgono su aree spianate e presentano una pianta rettangolare molto allungata; le abitazioni per due o tre famiglie si trovano tutte al piano superiore, mentre il piano terreno è costituito dalla carraia, dai depositi e dalle stalle; ne manca un terrazzo su parte di questo fabbricato. A poca distanza dal corpo principale sono ubicati i sili, l'ampia concimaia e grandi riserve di paglia. Di cospicue dimensioni, ma di forma alquanto diversa, sono le dimore padronali che si notano sulle colline prospicienti il mare. Queste case, oltre ad assolvere funzioni strettamente rurali, costituiscono la residenza estiva del proprietario, tra la campagna e il mare. Loro caratteristica è una netta separazione tra civile padronale, che si trova al primo piano, il rustico ed vani abitati dal colono che giacciono al piano terreno. Tali dimore presentano pareti esterne intonacate e non raramente ampie terrazze cinte da eleganti balaustre. (immagine) Fig. 53 – Guglionesi. Un vecchio edificio che presenta adattamento alle forme del terreno. (immagine) Fig. 54 – Palata. Strutture ad archi e terrazze sono elementi consueti nelle case dei centri costieri. Se i tipi di dimore finora descritti sono ancora legati a proprietà piuttosto ampie, essendo la mezzadria il tipo di conduzione più diffuso tra Guglionesi e Termoli, ben diversa è la dimora della piccola proprietà coltivatrice, il cui reddito è spesso del tutto insufficiente al sostentamento di un'intera famiglia. La povertà del contadino si identifica con quella della sua piccola abitazione, che è ridotta talvolta ad un unico vano (Fig. 55 e 56). Spesso l’appezzamento è tanto piccolo da non permettere il mantenimento di un bovino e la casa è dotata solo di un piccolo recinto per il maiale e per qualche pollo. Quando la stanza per l'abitazione è unica vi trovano posto la cucina e il letto e alcuni pannelli di legno separano i due ambient. Il forno è addossato ad un muro esterno della casa sul quale risalta la canna fumaria. (immagine) Fig. 55 - Ururi. Dimora bicellulare con capanna di paglia a base circolare. (immagine) Fig. 56 – Tra Portocannone e S. Martino in Pensilis. Casa di braccianti. (immagine) Fig. 57 – Petacciato. Una villa padronale in prossimità del mare. Nelle campagne di Ururi, Portocannone, S. Martino in Pensilis e nella vallata del torrente Cigno non sono eccezionali abitazioni di questo tipo provviste talvolta di una pagliara a pianta circolare, dove vengono riposti gli attrezzi da lavoro. In esse vivono di solito proprietari di piccolissimi appezzamenti che sono costretti a lavorare come braccianti. Altre case di tipo elementare si rinvengono frequentemente sulle colline di Termoli, ma sono più ampie, sebbene sempre ad un piano. Due vani sono riservati alla dimora della famiglia e ad essi è contigua una stalla sufficientemente spaziosa per ospitare almeno un paio di bovini. Il tetto è a due pioventi e ricopre abitazione e rustico. Fuori ci sono il forno, il pozzo, coperto da una tavolaccia e numerosi pagliai a pianta rettangolare. Molte di tali dimore sono oggi declassate a rustici o abbandonate ed in progressiva demolizione e sovente sono affiancate e sostituite da una casa della riforma fondiaria, caratteristica per i muri bianchi e per le attrezzature più moderne. Questi i tipi prevalenti nella fascia litoranea; ma verso l'interno, sulle pendici meridionali dell'Antiappennino Frentano, ove le case rurali si raccolgono quasi esclusivamente nei centri, troviamo tipi alquanto diversi. Nella grande maggioranza si tratta di edifici a due piani con cucina al terreno e camere da letto al primo; generalmente le scale sono esterne. A Montemitro, S. Felice del Molise e a Palata si riscontra un discreto numero di case con scala interna, talvolta legno, sistemata in cucina. Altri edifici hanno una struttura particolarmente legata alle forme del rilievo e non differiscono molto da quelle osservate nell'agro di Montefalcone e di Trivento. La varietà di pendio si realizza nel modo consueto, con l'abitazione sovrapposta al rustico e i rispettivi ingressi sono situati a monte per il civile ed a valle per il rustico. Le scale esterne terminano con ballatoi molto ampi a guisa di vere e proprie terrazze, circondate da ringhiere e ombreggiate da viti. Al di sotto delle terrazze fanno bella mostra archi ciechi a pieno sesto o sono stati ricavati angusti locali ad uso di cantina o di deposito. Nei borghi molto diffuso è anche il tipo con abitazione e rustico giustapposto, che presenta in genere adattamento al pendio. Pg. (63-65) CONSIDERAZIONI FINALI Struttura, forma e dimensioni della casa rurale molisana rispecchiano pienamente le condizioni dell'ambiente fisico ed umano in cui essa è inserita e rivelano la povertà dell'economia agricola della regione. Col suo carattere lineare ed unitario essa ripete forme molto comuni nell'Italia meridionale e non offre elementi od associazioni particolari che possano consentire l’individuazione di forme regionali. Per tale motivo nello schematizzare i caratteri fondamentali della casa rurale ci si è basati soprattutto sui fatti strutturali legati al rapporto di posizione tra le due cellule fondamentali della casa (cucina e stalla), tenendo tuttavia conto del maggior numero possibile di elementi caratterizzanti e dei loro reali raggruppamenti, al fine di individuare alcune varietà secondo lo schema generale adottato in queste ricerche. Nella classificazione che segue ci si è riferiti soprattutto ai lavori di Mario Ortolani e di Mario Fondi (1) relativi alla casa rurale abruzzese e a quella del beneventano, dai quali sono stati tratti numerosi suggerimenti sia per l'identificazione dei tipi che per la loro nomenclatura. 1. tipo unitario ad elementi sovrapposti (comprende anche le case degli Enti di Riforma fondiaria): a. varietà con scala interna b. varietà con scala esterna c. varietà di pendio 2. tipo unitario ad elementi giustapposti: a. varietà di pendio 3. tipo composito con alcuni elementi staccati dal corpo principale. 4. tipo complesso a corte recintata. Riassumendo brevemente i risultati dell'indagine occorre dire che la tendenza degli agricoltori molisani ad abitare nei centri ha causato la costruzione di case vicinissime tra loro che s'affacciano su anguste strade e che raggiungono anche tre o quattro piani quando, per le particolari condizioni del sito, fu indispensabile guadagnare spazio in altezza. Alla periferia dei centri ed in aperta campagna i fabbricati sono invece di piccola mole e generalmente a due piani. Tra questi il tipo più largamente diffuso è quello con abitazione sovrapposta al rustico ed è molto frequente la varietà di pendio. Fig. 63 - Schema della distribuzione dei piu importanti tipi di case rurali: Tipo unitario ad elementi sovrapposti: 1. Varietà a scala esterna; 2. Varietà a scala interna; 3. Varietà di pendio. - Tipo unitario ad elementi giustapposti: 4. Varietà di pendio; 5. Diffusione della capanna di paglia; 6. Tetti fatti con lastre di pietra; 7. Masserie a corte recintata; 8. Dimore elementari (monocellulari o bicellulari); 9. Principali aree di diffusione delle torri colombaie. Poco numerose sono le case costituite da più corpi separati e le masserie con corte recintata. Questi edifici sono localizzati principalmente nelle aree di grande varietà di prodotti agricoli ed in talune zone di maggiore produzione cerealicola e risentono dell'architettura campana. Un'ultima considerazione ci sembra opportuno fare sul tema dell'ubicazione della scala. C'è da notare infatti che la posizione esterna di essa nella parte più alta del bacino del Biferno e la diffusione di scale interne in abitazioni sparse nelle campagne di Campobasso e Jelsi, indicano la mancanza di rapporto con il fattore climatico e confermano le esperienze abruzzesi dell'Ortolani secondo il quale la scala si trova all'esterno quando c'è sufficiente spazio ed è ubicata all'interno dell'edificio soltanto nei centri compressi dove le condizioni ambientali non consentono l'occupazione di aree al di fuori del perimetro delle stanze della casa. L'esistenza di un cospicuo numero di scale interne nel medio Biferno, in dimore sparse, dove non esistono problemi di spazio, potrebbe essere spiegata come fenomeno di diffusione di una tecnica di costruzione tipica dei centri. Per quanto riguarda la struttura dei tetti, a volta o ad architrave, si è rilevato che le case dei villaggi di montagna, in special modo quelli del bacino del Volturno e dell'alto Molise (che presentano spesso alcuni vani scavati od incastrati nella roccia), di norma poggiano su struttura ad arco e, limitatamente ai seminterrati o terreni, presentano soffitto a botte. Nella media valle del Biferno è alquanto diffusa a crociera. La Fig. 63 illustra la distribuzione dei più importanti tipi di casa descritti. Ermal Hoxha AMMINISTRAZIONE PROVINCIALE CAMPOBASSO VELLAMJA Legame di sangue Canti e tradizioni popolari degli albanesi del Molise di Giannino Mastronardi VOLUME PRIMO Stampa: TIPOLITO DIENNE C.da Difensola, 2 CAMPOMARINO (CB) – Italy Proprietà letteraria riservata © 1991 – Amministrazione Provinciale Campobasso INTRODUZIONE L'arrivo degli Albanesi nel Molise risale al 1461, sotto Ferdinando I, quando Giorgio Castriota detto Skanderbeg venne in Italia, con navi, fanteria e cavalleria, in soccorso del Re, in quanto i Baroni del Regno non lo volevano riconoscere quale Monarca delle due Sicilie. Molti di loro rimasero in Italia e ripopolarono Campomarino, Portocannone, Montecilfone, Ururi, Santa Croce di Magliano, un tempo detta Santa Croce dei Greci, ed alcuni casali, oggi distrutti, in territorio di Larino - Colle di Lauro, Sant'Elena - in agro di Casacalenda - San Barvato. Lo stanziamento molisano è il più settentrionale, se si eccettua Villa Badessa, frazione di Rosciano, in provincia di Pescara. A Santa Croce di Magliano, oggi, non si parla più l'albanese, mentre conservano la lingua originaria: Campomarino, Moltecilfone, Portocannone, Ururi. Non molto è stato fatto per lo studio delle tradizioni e della poesia popolare dei paesi albanesi del Molise, se si escludono al cune notizie date alla fine del secolo scorso, da studiosi come E. Melillo, G.I. Ascoli, M. Marchianò, su Campomarino, Portocannone e Montecilfone. Nel 1957 A. Cirese nel “Canti popolari del Molise” inserisce un capitolo con alcuni canti di queste zone. In questa mia raccolta ho voluto inserire, non solo le regi strazioni da me effettuate, ma anche canti raccolti da altri studiosi perche mi sono accorto che i canti della mia terra erano trascritti in calabro-albanese e non in albanese-molisano. I canti sono stati riportati così com'erano all'origine senza influenze, aggiunte o varianti che travisavano il canto ed cuni casi lo cambiavano del tutto. Nelle trascrizioni ho adottato l'alfabeto ufficiale della nazione albanese per facilitarne la lettura. Ho diviso i testi secondo i cicli della nostra vita: nascita, matrimonio, morte; inoltre vi ho aggiunto i canti amorosi, scherzosi ed epici. Di canti religiosi non ne ho trovati, suppongo che sia dovuto alla perdita del rito greco-ortodosso che gli arberesh ptraticarono fino al primo ventennio del 1700. Gli Arbereshe sono molto attaccati a tutte le tradizioni del della loro primitiva origine. Vivono delle rimembranze vecchia Patria e tramandano da padre in figlio le canzoni che i loro antichi avi portarono, nelle varie emigrazioni, in Italia. I canti, le danze, la lingua, i costumi, i riti nuziali, le cerimonie funebri sono la loro tradizione. Essi sono una frazione di popolo che da ben cinquecento anni soggiorna in Italia, come stranieri fra le popolazioni indigene, perche lo Stato Italiano non ha mai attuato l'art. 6 della Carta Costituzionale dove si dice: “La Repubblica tutela, con apposite norme, le minoranze linguistiche”. In alcune antiche canzoni si rimpiange l'allontanamento dal la Patria e si ricordano con dolore i congiunti là abbandonati, ed esprimono l'ardente desiderio di rivederla. I canti sono raramente accompagnati da strumenti musicali, ai quali suppliscono con l'accordo delle voci. Questo modo di cantare semplice, naturale senza artifizio è tipico del popolo arbereshe. Giannino Mastronardi PORTOCANNONE (Marin Hoxha & Filip Çeçi) Il territorio di Portocannone è molto ristretto, consta appena di una superficie di kmq 12,56. Confina a nord e ad est con il territorio di Campomarino, a con il territorio di S. Martino in Pensilis, ad ovest con il territorio di Gu gli onesi e di Termoli, lungo il fiume Biferno I confini si svolgono nei seguenti p caratteristici: a nord partono dalla riva destra del fiume Biferno, salgono perpendicolar mente fino ad incrociare la strada provinciale Adriatica n. che Campomarino porta a S. Martino ed altri paesi dell'interno del Molise. La prima strada rotabile costruita nel Molise, per ordine di tempo, è stata la consolare Sannitica che fu decisa con R.D. del 22 luglio 1778, allorquando, completata la rotabile di Napoli a Maddaloni, si penso di estenderla sino a Campobasso, per toccare, in fasi successi- ve, la costa Adriatica a Termoli .Sin dal tempo di Federico II fu stabilito di non potersi esigere fida da quegli animali che nel passare da un pascolo all'altro si fossero so- lamente per un giorno o per una notte trattenuti negli erbaggi dei privati. Si parla ovviamente della transumanza delle greggi che per- correva l'unica via di comunicazione: il Tratturo. Questa limitata libertà non era sufficiente al comodo delle greggi, invitate nei reali pascoli della Puglia, di ridurre in miglior formala Dogana della Mena delle pecore, tant'è vero che il re comandò di far godere liberamente agli animali il necessario pascolo a riposo CLIMA DI PORTOCANNONE Portocannone fa parte di quei paesi disposti lungo la fascia costiera dell'Adriatico; situato su una collina del litorale, subisce il benefico influsso dell'azione del mare ed ha un clima tipicamente marittimo, con inverni miti. Le precipitazioni abbondano massima- mente nei mesi invernali. Molto raramente nevica, ma quando questo tipo di precipitazione si verifica, lo si deve unicamente alle escursioni termiche derivanti dall'afflusso di aria fredda provenien- te dai Balcani. Allora la neve viene giù copiosa, ma liquefa quasi sempre subito. Purtuttavia, nevicate eccezionali si sono verificate nel 1927, nel 1929, nel 1956 e nel 1962, procurando danni alle colture e sfondando anche alcuni tetti Il termometro difficilmente va al disotto dello zero . CORSI D'ACQUA Il fiume Biferno limita l'agro di Portocannone ad occidente e scorre lungo la sua vallata, proveniente dalle sorgenti di Boiano, dai contrafforti orientali dei Monte del Matese, e si getta nell'Adriatico tra Termoli e Campomarino, dopo aver percorso circa 93 chilometri E' l'unico fiume che scorre interamente in territorio molisano, la cui portata d'acqua ha permesso l'invaso del Liscione che contiene una massa aggirantesi intorno ai 130 milioni di metri cubi. Una volta che le sue acque non erano trattenute dalla diga, con le piogge, si verificavano spesso delle piene che, oltrepassando gli argini, invadevano i terreni adiacenti, provocando danni vistosi alle colture e alle infrastrutture della valle: come accadde nel 1940, allor- quando tutta la zona del basso Biferno rimase allagata seriamente venne minacciata la stabilità delle opere in muratura (ponti, case coloniche, opifici, ecc.) ci fu la perdita di numerosi capi di bestiame . LA FLORA DI PORTOCANNONE Il paese, situato come abbiamo visto sulla fascia costiera, annove- ra una vegetazione spontanea adriatica tipica: l'“erba medica” e “ma- rina”, la “coda di topo alcune graminacee; rari sono i boschi. Sulla collina di Portocannone vegetano i seguenti tipi di piante: piante a fusto legnoso, piante ad arbusto e piante a fusto erbaceo. Di queste, molte sono coltivate. Secondo la loro utilità, si dividono in: piante fruttifere, piante li- gnifere, piante da orto, piante selvatiche di bosco, piante da siepe Tra le piante fruttifere primeggia l'ulivo, pianta secolare dal fo- gliame verde-argenteo. E' nobile e prezioso per i suoi frutti, da cui si estrae il re degli oli LA FAUNA DI PORTOCANNONE Essa, sinserisce per Portocannone nel contesto del Molise, per cui si può fare un discorso unico più ampio La nostra Regione pur essendo una delle meno inquinate d'Italia e, pur avendo un habitatfavorevole allo mantenimento delle piante e della fauna oggi comincia anch'essa a risentire de cause che hanno determinato in altre zone lo squilibrio ecologico. Gli animali allevati in casa, vanno quasi scomparendo totalmen- te, per dare spazio all'allevamento specifico tecnologicamente piùra- zionale ed avanzato. Si vedono raramente il cavallo, il mulo, l'asino la vacca, la pecora, la capra e il pollame, tranne qualche residua unità in contrada più interna e più impervia. Gli elementi bovini, equini, ovini e avicoli vengono allevati in stalle razionali, non più per aiutare l'uomo nel lavoro dei campi o per alimentare la singola famiglia, ma per assicurare alle aziende un reddito e alla società maggiore apporto di carne A ragione di una più intensa attività e sfruttame dei campi, la selvaggina si fa oggi sempre più rara ed è difficile trovare la quaglia la starna, il tor l'anatra, la beccaccia,ecc. La lepre eil fagiano sono presenti con qualche a cura della provincia e dell'associazione dei cacciatori. La volpe è presente ancora, perche nei terreni non coltivati dove crescono liberamente erbe ed busti selvatici si, e qualche ancora storni, passeri, cardellini, petti e degli merlo, ma in numero molto ridotto, per l'uso dei veleni antiparassitari. ne fiume, ora a ridotta portata d'acqua, inquinato per l'immissio delle acque di rifiuto degli opifici e delle fognature dei paesi a monte, si pesca raramente l'anguilla, cavedano Nelle campagne sono presenti la tal il topo, la donnola, riccio anch'essi in fase di forte diminuzione per antiparassitari Si vede ancora, tra i rettili, qualche biscia buon numero la lucertola e il ramarro TRANSUMANZA Fin dai tempi dell'antica Cliternia, le vie di comunicazione man ano o erano limitate a quelle arterie consolari che collegavano Roma ai grossi d'Italia e dell'Impero. La rete stradale era scarsa e i rapporti fra i centri minori, lo scambio commerciale era scarsa. CONFINI DEL TERRITORIO DEL PAESE Il territorio di Portocannone è molto ristretto, consta appena di una superficie di kmq 12,56 Confina a nord e ad est con il territorio di Campomarino, a sud con il territorio di S. Martino in Pensilis, ad ovest con il territorio di Gu glionesi e di Termoli, lungo il fiume Biferno I confini si svolgono nei seguenti punti caratteristici: a nord partono dalla riva destra del fiume Biferno, salgono perpendicolar mente fino ad incrociare la strada provinciale Adriatica n. 40, che da Campomarino porta a S. Martino ed altri paesi dell'interno del olise, al ponticello confinante con proprietà di Adamo Acciaro (punciel Palucit), poi vanno per la Contrada Cocciolete, sino al torrente del Confine (proj Kumbines), proprio vicino alla masseria di Musacchio Tommaso (Nucendevet, una volta di Costantino Manes (Don Kostes), da dove partono i carri (sfelaturi). Ad est il confine va lungo il torrente del Confine che attraversa la Contrada della Difensola del Duca (Dhefencet), della Contrada Incotte (Ngotat) della Contrada Camarda (Jaka Madhe) e giunge fino al tratturo L'Aquila-Foggia, nel punto della Fontana degli Schiavi (Fundan da shqiavit). A sud rientra per la Contrada Difensola, rasenta il nostro Cimitero nella parte orientale, si butta per la Contrada Macchioni (Maqqiunevet), raggiungendo la sponda destra del torrente Cigno e termina là dove sfocia con le sue acque nel Biferno. Ad ovest segue il corso del Biferno fino al ponte, nei pressi dello Zuccherificio La questione della limitatezza del territorio è stata oggetto di una controversia negli anni che vanno dal 1910 al 1913, fra le allora amministrazioni comunali, rette dai Sindaci avv. Matteo Tanasso e Adamantonio Manes, con Segretario il rag. Giuseppe Demetrio Ciarla, il quale ultimo ebbe incarico dal Consiglio Comunale e dal Prefetto di restare in giudizio contro i presunti usurpatori dell'agro demaniale: Carlo Diego Cini, Principe di S. Nicandro, Baroni Zezza . Molto bene nel nostro terreno perche il sottosuolo è costituito da e terra calcarea, dove le radici hanno modo di pietre inserirsi saldamente. Ha tronco nodoso e rami contorti; foglie sono di colore verde-cupo, sulla faccia superiore, e di un verde-argenteo, sulla pagina inferiore; hanno una scanalatura lon- gitudinale e misurano da tre a quattro centimetri di lunghezza, sono permanenti. Il frutto è una drupa ovoidale,la cui polpa e nocciolocon- tengono il prezioso condimento. Abbiamo circa 25.000 piante, con una produzione media di 12, 13 mila quintali di olive all'anno Una cooperativa di soci produttori utilizza un frantoio sociale capace di molire circa 500 quintali di olive al giorno, oltre a tre altri frantoi privati esistenti in loco L'ulivo, purtroppo, sta perdendo la valorizzazione di una volta, a semi. dell'immissione sul mercato di numerosi oli, ricavati da vari oltre tutto, contribuisce a renderne precaria la coltura, la carenza di mano d'opera e gli alti costi di produzione il Altre piante da frutto vegetano bene nell'agro: il mandorlo, il fico, iliegio, il melo, il pesco, il pero, il gelso, il pruno, A queste, il nostro contadino non dedica particolari cure, per il fatto che sono frutti non la spesa, perche, essendo la zona piuttosto calda, sono facilmente da parassiti a maturazio ne arrivano malconci affatto e apprezzati dal commercio C'è, comunque, in promozione coltura izzata di alcune di frutta a scopo commerciale che sta dando dei buoni risultati. Si vede sorgere, qua Le piante ad alto fusto a pruneto ailanto, il leccio, crescita spontanea sono: l'olmo, la quer l'acacia, il piop il Salice, ecc Gli arbusti, utilizzati fino a pochi anni addiet Ora, i greggi, non vanno piu ll… lhullu U. per VITAEDOCCUPAZIONE DEIPRIMIALBANESIDI PORTO NONE Dopo che i primi albanesi si siste su questa collina d Castelli, scelta miracolosamente dal volere della Madonna, e dopo di aver costituito il primo nucleo del paese, quei cittadini dovettero adattarsi alclimaealluogo, ma primieramente dovettero cercarsi un lavoro a loro congeniale per assicurare alle proprie famiglie il neces sario sostentamento Sappiamo che gli albanesi d'Albania, come occupazione precipua esercitavano la pastorizia anche perche quelle terre erano montuose ed intricate di vegetazione spontanea, per cui si adattavano unica mente a far pascolare animali bovini, ovini, suini. Così, venuti in Italia, dovettero continuare ad esercitare lo stesso lavoro, anche perche il territorio circostante si presentava boscoso e favorevole all'allevamento del bestiame. Divennero così proprietari di greggi, di ovini e di mandrie di buoi; quindi, specialisti nella confezione di latticini e di altri prodotti derivati da quel bestiame. Si evince che il loro commercio si svolse nel campo delle carni, dei prodotti caseari e delle pelli. Il paese, situato in mezzo al folto bosco era facilmente attaccato dai lupi, i quali, com'è noto, vanno a caccia preferibilmente di ovini ed anche dai briganti, che in quei tempi infestavano ogni parte meridione d'Italia. Gli albanesi furono costretti a difendersi; e per non trovarono difficoltà alcuna, perche sapevano maneg giare le armi in modo egregio, per atavico retaggio Ancora oggi le tracce di queste doti le troviamo nelle sempre dimo strate attitudini dei nostri concittadini alla caccia PORTOCANNONE ALBANESE Siamo cosi giunti al periodo congiunturale, cui Portus Cantorum conclude la propria esistenza con la distruzione totale causata dal terribile terremoto del 1456; si affaccia all'orizzonte il periodo della venuta in Italia degli Albanesi. Portocannone ha avuto varie vicissitudini durante quel periodo. E' rimasto disabitato a causa dei movimenti tellu ed è passato come “casale” dipendenze di Guglionesi Non si sa con precisione quando gli albanesi siano arrivati, però risulta che tra il 1510 e il 2 ce n'erano già 10 o 12 fuochi (famiglie) Mentre Portus Cantorum era situato in Contrada Castelli, l'at- tuale paese fu fondato, sempre nella stessa Contrada, ma distante dal paese distrutto circa 500 metri. La Contrada porta questo nome a ragione dell'andamento del terreno, che per essere l'orlo destro della vallata del Biferno costitui to da tante successive collinette, è somigliante ai merli dei castelli medioevali. Cosiccheil paese latino era situato su un “merlo”, mentre il nuovo fu costruito su un altro poco distante. Comunque, in epoche passate il paese è stato chiamato anche “Portocannone dei Castelli” Con l'invasione dei Turchi in Albania, avvenuta nella seconda metà del secolo XV, dopo la morte del grande condottiero Giorgio Castriota Skanderbeg (1468), profughi albanesi si rifugiarono in Italia, costituendo varie colonie etniche in tutto il Regno di Napoli. Gli Albanesi, in gran parte contadini e pastori, nel Molise sono stati sistemati, in un primo tempo è sempre Mons. Tria che fornisce queste notizie nelle vicinanze di Larino, in località Civitella, e anche a Guglionesi, poi, per ragioni varie e anche religiose, sono stati distribuiti a Portocannone, Ururi, Montecilfone, Campomarino e Chieuti Dice ancora il Tria che costruirono ex novo Portocannone nell'at tuale località, ereditando solo il nome da quello dei latini Da “Cenno Storico sugli Albanesi d'Italia” di Costanzo Ciarla (nostro concittadino) Tip. Adriatica Termoli 1935 . URURI (Fratangelo, 1995) (Esmerina Hidri) Anno 1461 Secondo lo storico Rodotà, i primi Albanesi comparvero in Italia l'anno 1461; altri vennero dopo, ora in molti ora in pochi, con o senza la guida di qualche Capitano. Anno 1465 I primi albanesi vennero a Ururi nell'autunno dell'anno 1465. Il Vescovo di Larino Mons. Antonio de Misseriis, desideroso di valorizzare il Casale desolato di Ururi, feudo della sua Mensa, diede ospitalità ad una colonia albanese, vivente ancora l'eroe Skanderberg. Anno 1468 La seconda immigrazione avvenne dopo la morte di Giorgio Castriota soprannominato “Skanderbeg”, cioe emulo di Alessandro, per il suo valore e la sua resistenza all'invasione dei Turchi. Purtroppo, dopo aver combattuto con i suoi fino all'ultimo sangue moriva ad Alessio: era il 17 gennaio 1468. Per sfuggire dal dominio dei Turchi, molte famiglie nobili lasciarono l'Albani si aggiunsero ai gruppi già stanziati in precedenza in Ururi e nel Molise. Stanchi per il lungo viaggio, i profughi rimasero alcuni giorni per riposarsi e ristorarsi. Quindi con la benedizione del Vescovo, che li affidò alla protezione di S. Antonio, raggiunsero il desolato Casale di Ururi, feudo della Mensa Vescovile Ad un tratto interrompe la narrazione storica il caro Michele, il quale dice: da quel giorno forse ebbe inizio la grande devozione degli Albanesi di Ururi al Santo di Padova, che ha protetto e continua ancor oggi a proteggere il buon popolo Ururese “La ricostruzione delle Origini Albanesi” 24 Giugno 1989 Nel 1454 a Torre Francara nel Molise è documentata la presenza albanese al servizio del Signore di Larino, feudatario di terra. Col nuovo re Ferdinando 10, succeduto al padre nel 1458, si rinfocolarono le antiche discordie e i baroni del regno org no una sommossa contro il Re e posero l'assedio a Barletta, dove il Re si trovava. Giorgio Castriota, chiamato in aiuto, nell'agosto del 1461 sbarcò a Barletta e sul mon Segiano affrontò i nemici, sbaragliandoli sul campo In seguito a questo episodio molti dei soldati di Skanderbeg in Italia e popolarono i feudi avuti in concessione dal re aragonese. Nel 1468, il 17 gennaio, l'eroe nazionale albanese mori di malaria e, cessata ogni speranza di vittoria contro i Turchi, iniziò il grande esodo degli Albanesi in Italia “sulle orme di quei monaci che, molti secoli prima per sfuggire alle persecuzio ni iconoclaste e per conservare intatti i valori tradizionali della fede cristiana, si erano trasferiti in Calabria”. Il Pontefice Paolo cosi descriveva, in una lettera al duca di Borgona, le co dei profughi al loro arrivo in Italia gli Albanesi in parte sono uccisi dalla spada, altri condotti in misera dovunque non vedi che terrore, lutto, morte… Gli Albanesi, abituati alia fatica perche militarmente educati e perche meno corrotti dall'ozio molle, di un popolo, essi la missione di svestire la coltivatori .Ma i casali ricostruiti e abitati dagli Certamente essi furono molto più numerosi degli odierni paesi .Per molte e cause a parte di essi fu spopolata e resto abbandonata. Nel 1540 per un capitolazione tra l’Universita di Larino e il suo feudatorio Pappacoda restarano disabiati I casali di Sant’Elena, per un torre Francara, Vena Acquosa, Caracciolo, lice, Civitella, scomparve anche la colonia albanese di Montorio nei Frentani se la popolazione di rito latino ed a Santa Croce di endere parlare dei paesi che la lingua antichi voglio qualche uno dei casali scomparsi abbiamo abbondanti riferite dal Tabulario Pinto del 1663 Sal Leuci (questo era ilnome del casale) era un piccolo casale di circa sessanta abitanti divisi in sedici fuochi, situato tra Palata e Guglionesi abitato “da persone quiete e non rissose, di buon aspetto gli uomini che donne”. Possedeva una chiesa piccola da una navata dove si veneravano S. Francesco e S. Elia Carmelitano, protettore del casale. Era govermato dal suo sindaco e dagli eletti sulla cui nomina il barone di Larino doveva concedere il benestare. I suoi abitanti avevano anche il compito di fare da “comites lunghi viaggi che il barone di Larino faceva a Napoli e in altre città. Probabilmente il casale fu abbandonato in seguito al terremoto del 1712 e i suoi abitanti si trasferirono a Palata dove, ancor oggi, pur essendo un paese di origine slava, sono presenti alcuni cognomi albanesi. La vita dei nuovi arrivati fu assai difficile. Essi conservavano i costumi la lingua, le pratiche e i riti dei loro avi e ciò li rendeva “diversi” agli occhi delle popolazioni locali, i rapporti poi con i “latini' erano praticamente impossibili per incomprensione linguistica e che sottraevano rendite Ma l'elemento che caratterizzava maggiormente i albanesi era il rito greco praticato tanto da essere definiti tout court “Greci” yuole soritere dirito greco dele Molise tentativo diventa ben presto mpresa ardua perche si costrett a lavorare nel piu assoluto, sempre azzardate. Bartolomeo De Gregorio favora l'ingresso degli Albanesi nella città che praticarono un grande eccidio e con l'aiuto di elementi del posto riuscirono a scovare i liberali dai loro nascondigli, a conduri in una località chiamata Mulini a vento e trucidarli. Tra le vittime c erano i fratelli Brigida. Successivamente posero a sacco la cittadina portando via anche i cannoni dalle mura. diciannove febbraio circa duemilacinquecento insorgenti, incitati dal Duca Sangro mosso dall'odio contro mastrogiurato Di Gennaro attaccarono quella che era considerata la roccaforte dei liberali molisani: La massa degli insorgenti risultava formata da albanesi di Portocannone Montecilfone, anche Larino. Portarono due cannoni presi a Termoli. L'assedio durò parecchi giorni i cittadini si difesero con orgoglio e disperazione. CAMPOMARINO TUTELA (FDIM 002A 0006) Aspetto Archeologico Il sito protostorico di località Arcora a Campomarino (CB) a Campomarino (IGM, F 155 IV No, mm.2201310, era Sin dal 1974 la zona Ar destinata ad ospitare un complesso di abitazioni (ville v ni) destinate a soggior permanente e residenziale. di tali opere prevedeva sbancamenti di profondità variabile, dagli 80 ai 100 nella zona interna, dai 2 ai 4 m, per le abita zioni da realizzare lungo il costone che affaccia sul litorale. Tali sbancamenti, evidenziarono la presenza di materiali di epoca proto 1980 ed il 1981 izzati tra recuperati nel terreno di risulta storica di notevolissimo interesse, i frammen su prattutto la situazione evidenziata nelle pareti dei del rinvenimento. Una prima esplorazione di verifica, preceduta da provvedimenti di rito, fueffettuata nel 1982; dal 1983 al 1989 sono l'enor. nualmente scavi sistematici. I risultati conseguiti finora hanno confermato me del peraltro sin dal primo sopralluogo dell'area si tratta di insediamento di epoca torica (la frequentazione sembra si sia protratta dal lx al vil secolo a.c.; dato in due settori: una fascia che corre sul sapere sulle fasi poste costone (definita Zona B), parallela al litorale, nella quale sono stati aperti alcuni quadrati-saggio che lascia no intuire una successione di capanne contraddistinte da almeno tre fasi pavimen tali; una zona mediana (Zona A), nella quale si è soffermata l'esplorazione negli ul timi ann ntanto è stato individuato il limite sud-occidentale dell'area occupata dalle capanne, costituito, per un tratto, da un muro che prosegue verso inne standosi su un fossato non molto regolare. L'area abitativa è ottenuta eliminando il terreno vergine in modo che il piano delle capanne risultasse ribassato, rispetto al piano di calpestio circostante, di circa 30-50 cm. Lo strato archeologico è di spes sore ridotto, ciò evidentemente per il fatto che tale area è stata sottoposta, in tem pi piuttosto recenti, a sbancamenti e spianamenti di superficie che hanno elimina to lo strato superiore; si ricorda che nel corso dell'ultimo conflitto mondiale la zona è stata adattata a postazioni truppe; non pochi sono gli oggetti, rinvenuti nello di scavo, riferibili a questo avvenimento preva Le capanne sono a pianta rettangolare absidata; le pavimentazioni sono entemente in concotto, ma non mancano strati di lastre irregolari o strati ben com pattati di ceramica opportunamente frantumata; gli esterni si utilizzano invece strati di ghiaia frammista ad ossa di animali e, immediatamente a ridosso delle pa. reti delle capanne, sacche continue di caolino utilizzato evidentemente per esigen- ze di impermeabilizzazione. Non è stato possibile ancora chiarire l'articolazione dell'ingresso, anche se alcuni indizi non farebbero escludere la presenza di un por tico. Le pareti erano ottenute rivestendo ntelaiatura di canne e di rami con consi stenti strati di intonaco ceramica di impa- materiali mobili recuperati sono numerosissimi e vanno dalla 23. frequente, di argilla depurata, con meno alcune capanne non a quella, mancano vasi parete della capanna; i I sto geometrica pavimento d'uso di vario genere ed oggetti ricchezza di i la essi sono stati rinvenuti testimonianze conoscenza comunità protostorica o senza semi e le numerosissime litorale adriatico. estremame particolato insediata in questa parte del situ la riflettere del di una conservazione in induce tuttavia a che la unico progetto di un del sito attraverso significativi storica del sito futuro storia testimonianza, di in didatti la situ tenga conto della e d tratterebbe di lasciare in primitiva tazione: si di questa le anche attraverso accortezza resa comprensibile e dell'insedi se confrontati con lo scavo neces La tempi pi con precisione i tempi dello scavo, che richiede di quantificare permettono al completamento dello Angela Di Niro AA.VV., Profili Annotazioni sul popolamento daunio nel territorio a nord e a nord-ovest di Foggia della Daunia antica clo di conferenze, 1986, p. 283 ss CAMPANILI MOLISANI (IT) Partiti da Termoli, fermammo alla stazione ferro- viaria di Guglionesi Portocannone Verso levante, so pra un colle coronato d'olivi, appariva Portocannone uno dei paesi molisani che ospita i profughi della Nazione Albanese, il ghiacu sprisciur (sangue sparso) di un popolo disperso dalla dominazione turca Nel 1466 cinquecento Albanesi vi si fermarono. Da dieci anni era stato abbandonato, in seguito al l' orrendo terremoto della notte dell' 11 dicembre 1456. Essi e quelli che occuparono altri luoghi furono guidati dalle famiglie principali dei Becci Grossi Musacchio Petta, Samueli e Tanassi. Dediti all'agricoltura e alla pastorizia, coltivarono su vasta scala il frumento ed allevarono copioso bestiame. l costumi originarii sono andati man mano scom parendo. Resta ancor salda la lingua, e la consuetu dini di piangere i morti, tessendo l'elogio del de unto. STUDIO SU PORTOCANNONE E GLI ALBANESI IN ITALIA Istruzione popolare, di conseguenza non avevano scuole vere capaci di dirozzare gli animi e illuminare le intelligenze.Abbiamo visto che il tipo di educazione e di attività dei primi proprie albanesi di Portocannone era connesso allo sviluppo che essi ebbero nella madre patria.La educazione della famiglia era molto severa perché limitata alle poche tradizioni, le professioni erano limitate quelle, come qui sopra descritto, che avevano affinità con la pastori zia Però, a contatto con la civiltà delle popolazioni vicine e con gli scambi culturali, commerciali e matrimoniali, la famiglia portocan- nonese ha dovuto necessariamente adattarsi, e quindi, orientarsi verso una nuova educazione.Anche le leggi italiane hanno contribui to molto alla trasformazione dei primi caratteri albanesi.La lingua ha perso moltissimo, perché non coltivata nelle scuole: l'agricoltura è cambiata, perché attuata su nuovi terreni;le arti e le professioni si sono dovute ampliare, perché l'Italia presentava una civiltà diversa.Gli albanesi, che nella loro patria vivevano per lo più in povertà e spesso in carestia a causa dell'avaro territorio, trovarono qui ampie distese di terre incolte che promettevano la prosperità;ma anch'esse avevano bisogno di sistemazione e trasformazione che doveva parti re dall'alto.Il Molise, povero di vie di comunicazione, si serviva dei tratturi, o di cammini improvvisati che seguivano il tracciato dei fiumi, come testimoniano i diversi ponti di cui sono rimasti fino oggi ancora i ruderi il ponte della Reginella, ad esempio, tra Guglionesi ePortocannone, costruito, secondo la tradizione, dalla giovanissima Regina Giovanna I (1325-1382), su cui pendevano pesanti pedaggi) La prima strada rotabile costruita nel Molise, per ordine di tempo, è stata la consolare Sannitica che fu decisa con RD del 22 luglio 1778, allorquando, completata la rotabile di Napoli a Maddaloni, si pensò di estenderla sino a Campobasso, per toccare, in fasi successi la costa Adriatica a Termoli Sin dal tempo di Federico II fu stabilito di non potersi esigere fida da quegli animaliche nel passare da un pascolo all'altro si fossero so-lamente per un giorno o per una notte trattenuti negli erbaggi dei privati.Si parla ovviamente della transumanza delle greggi che per correva l'unica via di comunicazione: il Tratturo.Questa limitata libertà non era sufficiente al comodo delle greggi, invitate nei reali pascoli della Puglia, di ridurre in miglior formala Dogan a della Mena delle pecore, tant'è vero che il re comandò di far godere liberamente agli animali il necessario pascolo a riposo,così nel sal Il popolo era dedito all'agricoltura.Su vasta scala si esercitava la Inobili Albanesi, addestrati nell'arte della guerra e fieri dei meriti te ben fatte coltivazione del frumento;non mancavano le terre boscose che per- mettevano una copiosa pastorizia, redditizia e sicura bellicosi, rimasero in più stretto contatto con la casa regnante nel napoletano;furono impiegati nella nobile e delicata missione di guerra che sempre disimpegnarono con onore, zelo, amore e gagliara Many other families followed these first and settled in Italy during Paul II and Charles V Sorsero so, in 1466 (1468), Albanian countries in the various sites of Italy, those that more closely interest us: Casalnuovo, Casalvecchio , S. Paolo and Chieuti in the province of Foggia, and Ururi, Portocanno, Campomarino, Montecilfone and S. Croce in the province of Campobas. Care of the Albanians who emigrated to Italy was to found a new homeland and to gather fellow countrymen from the dispersed natio Puglie, rimeso pace aleggio la pace ridonata messe all'Altissimo. Fu cosi che tra il 1461 e il 1467 numerose famiglie albanesi si insediarono negli attuali comuni di Campomarino, Porto- cannone, Ururi e Montecilfone, nel Molise, e in tutto il Regno di Napoli, per circa una ottantina di altri comuni Trapiantati cosi in altre terre e in altro Stato gli immigrati, abbandonati a se stessi, senza più conservare rapporti con le terre e le popolazioni d'origine, per necessità di sopravvivenza si inserirono in tutto e per tutto nel diverso sistema politico e sociale per essi del tut fronte agli Angioini che si erano dimostrati più forti ed o Questa la prima ondata di Albanesi che riversò nell Ita aiuto sbarcarono in Italia gli Albanesi al Comando di Ins Alfonso d'Aragona, il Magnanimo, poiché stava soccombe della regione, nonché altri capitani albanesi,Giorgio e Basapo recarono in Sicilia. Convegno RESTARC CAMPOBASSO 10 novembre 2006 Intervento di Fernanda Pugliese Pubblicato in RIVISTA KAMASTRA 2006 Tipologia degli insediamenti abitativi nelle comunità di origine albanese nel Molis 1- cenni storici 2- centri storici 3- Le mura 4- Le strade 5- le case e i quartieri ( Gjitojia) 6- I luoghi di culto Cenni Storici Com’è noto nel Molise, vi sono alcuni paesi di origine e lingua albanese e croata che risalgono alla seconda metà del ‘400 e che sono il risultato di fenomeni migratori causati da eventi storico-religiosi abbastanza complessi, che hanno interessato la penisola balcanica, all’epoca al centro di numerose questioni espansionistiche e l’Italia, in modo particolare il Regno di Napoli e la Repubblica di Venezia che miravano ad espandersi ma anche ad adeguarsi alla struttura degli Stati Nazionali, eliminando la feudalità. In modo particolare i comuni albanesi che oggi sono quattro, furono in passato molti di più. Si ritrovano tutti nell’area del basso Molise nei territori, assegnati giurisdizionalmente alla provincia di Capitanata fino al 1811, quando furono da questa distaccati per essere annessi alla Provincia di Molise istituita nel 1806. GLI ARBËRESHË, giunsero in TALIA in momenti diversi. Importanti testimonianze di immigrati albanesi nella penisola risalgono intorno al 1300. Si trattava prevalentemente di gruppi sporadici che si sono insediati qua e là lasciando testimonianze anche molto significative, quale ad es. la famiglia dei Durazzo di Genova che ha dato lustro alla città fondando una dinastia di dogi, vescovi, diplomatici e ambasciatori; o della casata degli Albani insediatasi nelle Marche e dai sarebbe nato il Papa Albani ecc… Si tratta, evidentemente, di casi isolati ma emblematici. Bisogna infatti considerare che l’esodo più massiccio e storicamente documentato è stato sicuramente quello risalente ai tempi di Skanderbeg, quando il Castriota raggiunse l’Italia con le sue milizie per soccorrere Ferdinando d’Aragona in lotta contro gli Angioini che volevano esautorarlo dal Regno. I baroni che si ribellarono al re, capeggiati dal principe di Taranto Napoleone Orsini, furono sconfitti dallo Skanderbeg nel 1462, nella battaglia di Orsara, in Puglia, che pose fine alla contesa, ripristinando la dinastia aragonese nel Regno di Napoli. Numerosi furono i riconoscimenti ed i feudi che Ferdinando D’Aragona donò all’amico Castriota, e a loro volta, i discendenti riconobbero la valentìa e la fedeltà degli albanesi, i quali furono, nel tempo, molto apprezzati per i servigi resi, godendo di benefici e concessioni, che però scatenarono anche violenti forme di intolleranza con le popolazioni locali. La regina Giovanna D’Aragona, che sposò in seconde nozze Ferrante II, nei suoi feudi dotali di Guglionesi ed Isernia, richiamò, molti albanesi, all’epoca chiamati Arbëreshë perché provenienti dal principato di Arberia che costituiva il primo stato feudale albanese della storia . Il principato d’Arbëria trasse le sue origini dal distacco della nobiltà feudale dalla giurisdizione di Costantinopoli, cui l’Albania meridionale era stata sottoposta , dopo la divisione dell’Impero Romano che nel 395 si distinse in Impero Romano d’Occidente e Sacro Romano Impero del Levante. “Di fatto però, nell’Albania pre-ottomana non si poteva parlare di un sistema feudale vero e proprio per l’assenza stessa dell’istituto che caratterizza quel sistema rappresentato dalla investitura sovrana del feudo” (d’Angelo Maria Rosaria, Tradizione romanistica e costruzione sistematica di un diritto arberesh, tesi di laurea in Giurisprudenza, Università degli Studi del Molise, a.a. 2003-2004). In Italia, Il feudo di Guglionesi concesso in dote a Giovanna D’Aragona, insieme a quello di Isernia, fu retto dalla regina fino al 1507, poi, ella lo permutò con quello più redditizio di Castellammare di Stabia, ospitò su volere della regina un nucleo di soldati albanesi posti a dimorare in un apposito quartiere nella parte più alta, intorno alle mura, per motivi difensivi, ancora oggi denominato “quarto dei greci” e “largo dei greci”. Gli Albanesi stanziatisi a Guglionesi nella zona più alta del paese, presso la cinta muraria del Portello, popolarono la città organizzandosi in forma autonoma anche dal punto di vista urbanistico. Cattolici di rito greco – bizantino, adattarono alle esigenze di tale culto le loro chiese. La chiesa di San Pietro fu ripristinata per tale scopo. La testimonianza della loro fede viene resa dall’ icona della MADONNA TRA I SANTI PIETRO e PAOLO, realizzata da un artista albanese ivi dimorante (presumibilmente), Michele Greco da Lavelona che dipinse su commissione, altre opere di importante e pregevole fattura greco-bizantina. Gli insediamenti albanesi in Italia furono abbastanza numerosi, la loro collocazione a macchia di leopardo nei diversi territori del meridione, sembra quasi un capriccio della storia che ha disseminato qua è la i nuovi venuti, ma, in verità, ad essi furono assegnati territori diversi e sparpagliati, ma molto interessanti dal punto di vista strategico, per difendere i luoghi più vulnerabili del Regno. Successivamente, le popolazioni furono indirizzate verso nuovi luoghi, pressoché impervi e disabitati, per motivi ed interessi economici, quale, per esempio, nel caso di Guglionesi, per ripopolare i vecchi casali abbandonati e distrutti da calamità naturale, per mettere a frutto i terreni incolti, aumentando le rendite. Centri Storici Da questo punto di vista è possibile classificare gli insediamenti albanesi nel Molise, distinguendoli tra: insediamenti in centri gìà abitati: Ururi, Santa Croce di Magliano, Guglionesi; in centri costruiti ex novo: Montecilfone, Campomarino, Portocannone; in casali già possedementi di antichi feudatari: Aurole e Ceppitto, nel territorio di Ururi Serramale e Torre Francara, nel territorio Montecilfone Civitella, Sant’Elena e Colle di Lauro, San Leucio, Difesa Nuova, nel territorio di Larino Cerritello e San Barbato tra Larino e Casacalenda Porticchio o Verticchio agro di Rotello Gli stanziamenti presso i casali sono stati ben presto svuotati e le popolazioni si sono concentrate nei centri urbani più grandi che si erano man mano organizzati e costruiti su diverse tipologie abitative, tutte però rispettose di una conformazione urbanistica che voleva nella chiesa, l’edificio attorno al quale si sviluppava il reticolo delle strade ai cui lati erano poste le abitazioni edificate secondo una struttura rispettosa degli usi e delle tradizioni che quelle popolazioni avevano trasferito con loro, come un bagaglio di beni immateriali, dall’altra sponda del mare. I centri abitati che oggi sopravvivono e che prendiamo in esame sono 4. Di questi dal punto di vista urbanistico, tre (Montecilfone, Ururi, Campomarino) presentano alcune analogie che le rendono molto simili sia per la forma che per l’estensione dell’abitato, rispetto a Portocannone che presenta, invece, una tipologia propria, molto particolare ed interessante. Una forma di quadrilatero, con le abitazioni costruite attorno alla chiesa madre e disposte su file parallele che fanno da cinta al paese. Il vecchio nucleo di case ancora ben visibili, in un concentramento di vicoli molto stretti, denota evidentemente, l’intenzione degli abitanti di difendersi da attacchi esterni e da assalti di animali selvaggi, ma anche una soluzione contro lo spirare dei venti . La costruzione delle case addossate nei vicoli, oltre ad essere una caratteristica dei villaggi medioevali rispondevano ad altri fabbisogni regolamentati da alcuni elementi caratteristici dei loro usi e costumi, ben codificati nelle consuetudini. LE MURA Le mura, caratteristica tipologica del villaggio medioevale, diventano anche fondamentali negli insediamenti abitativi dei villaggi albanesi in Italia che, benchè costruiti quasi sempre all’apice di colline ed alture in zone difficilmente raggiungibili e praticabili, per una maggiore protezione, costruirono intorno alle proprie abitazioni delle fortificazioni. Scrive il Tria: “i villaggi erano muniti di muraglie ….bastevoli per assicurarli dalle correrie de’ turchi in quelle marine dell’Adriatico , che sono purtroppo frequenti (Tria Giovanni Andrea, Memorie storiche, civili ed ecclesiastiche della città e della diocesi di Larino, Roma, Zempel 1744, pag. 453, ristampa Cosmo Iannone, Isernia, 1988. Poiché l’abitato di ogni villaggio era protetto da mura, vi si accedeva attraverso porte fatte ad arco. A proposito di Ururi, Tria ricorda: “è tutto murato all’intorno, ….con due porte, una all’incontro dell’altra e cioè…. quella che conduce a Larino e l’altra …. che conduce a Serra Capriola” (Tria op. cit. pag. 421). Diverso è il caso di Portocannone. Aveva anch’esso due porte che permettevano l’accesso al paese e che “davano verso la chiesa” (Flocco Michele, Studio su Portocannone e gli Albanesi in Italia, Cartotecniche Meridionali, Foggia 1985). Ma erano le stesse abitazioni a fare da cinta muraria. L’abitato fu costruito in modo da formare quasi un rettangolo che potesse comprendere le case, le quali erano rivolte verso l’interno…. “Questo casale è recinto intorno per causa dell’unione delli edifici che si fanno riparo” (Ciarla Giuseppe, relazione sulla questione demaniale di Portocannone, stabilimento tipografico Colitti, Campobasso, 1910). L’antico nucleo è costituito da un insieme di abitazioni che viene a formare un rettangolo dentro il quale sono inserite due fila di case. Vi si entra attraverso un arco a tutto sesto che affaccia, fuori le mura, oggi in piazza Skanderbeg. L’arco era munito, un tempo, di un portale che “…si chiudeva al calar del sole e si riapriva all’alba, per una migliore garanzia di sicurezza” (Flocco Michele op. cit. pag. 108) I centri abitati, generalmente molto piccoli e circoscritti, dovettero ben presto estendersi fuori dalle mura …..in riferimento ad Ururi Tria ricorda: “….attesa l’angustia del sito che viene circondato dalle muraglie di questa terra, altre case si sono fabbricate fuori da esso, e intorno alla medesima per anche commode” (Tria op. cit. pag. 421). Testimonianze analoghe si riferiscono anche a Montecilfone, dove si evince che la costruzione di alcune abitazioni e della stessa cappella di San Rocco (non più esistente), siano state edificate fuori le mura. I tre paesi di Montecilfone, Campomarino ed Ururi presentano molte analogie dal punto di vista della loro posizione geografica. Adagiati all’apice delle colline si adeguano alla posizione del crinale. Portocannone, benchè anch’essa costruita sulla parte più alta della collina, ne sfrutta la parte pianeggiante, adeguando l’abitato a forma strutturale che meglio si addice al luogo, rispettando, dal punto di vista topografico, il modello difensivo del “castrum” (accampamento) romano. La forma generalmente quadrata o rettangolare era circondata da un fossato o da un terrapieno. Il quadrilatero fu pure la figura geometrica dei castelli o accampamenti più piccoli che si costruivano intorno alle città assediate. Gli angoli erano generalmente arrotondati per motivi di difesa militare, per non dare la possibilità ai nemici di trovare eventuali appigli. I castri avevano quattro porte, la frontale o pretoria, la rovescia o decumana, e due laterali. Molte città e paesi assunsero tale forma come si evince dallo stesso toponimo che ancora oggi connota la loro denominazione (castroregio, castrovillari ecc…). Era questo uno dei modi per costruire i paesi cercando di difenderli dagli attacchi di predoni, vandali, barbari e nemici invasori. Le Strade “Le strade sono le vene del suolo” recita il Kanun di Lek Dukagjini, il famoso Codice Consuetudinario che raccoglie tutte le norme morali e civili del popolo, con una serie di articoli che hanno regolato nel tempo, le memorie degli anziani, delle bandiere e delle fis, trasformando la consuetudine in norma. Regolando tutti gli usi e i costumi della società albanese, il Kanun disciplina anche i rapporti tra le persone, tra queste ed il villaggio e negli altri luoghi in cui scorre e si svolge la vita degli abitanti e delle comunità in generale. “Le strade ed il sentiero debbono avere un braccio di larghezza fra i due confini, la strada delle contrade del villaggio deve essere larga otto palmi da cedersi a metà da ambedue i confinanti. La strada pubblica dev’essere tanto larga da far passare il cavallo col suo carico ed i bovi col loro giogo. La strada è come la vena, non può essere chiusa ad alcuno La strada della Bandiera deve essere larga quanto è lunga l’asta della bandiera.”. Sono questi alcuni esempi su come regolarsi per la costruzione delle strade nella tradizione arbëreshe e che, tuttavia, risultano essere state prese in considerazione, per la costruzione degli insediamenti abitativi in quest’altra sponda dell’Adriatico dalle popolazioni che si sono evidentemente attenute a queste “prescrizioni”, per costruire i loro villaggi, adeguandosi nel tempo alle altre norme e regole del posto. La strada del villaggio, oltre a consentire il passaggio degli uomini e degli animali con i loro carichi, era anche il luogo in cui si affacciavano i prospetti delle loro case ed adiacenze. Sulle strade pubbliche si aprivano le abitazioni che erano poi i luoghi dove si svolgeva la vita degli abitanti. Le case e i quartieri (Gjitonjia) “Per casa d’intende lo stabile-sia esso un fabbricato di pietra che una capanna- abitato da qualcuno (K. L.D. capo X artt. 62-63); “qualunque edificio che si trovi dentro il cortile, si considera facente parte della casa, perché compreso nel suo recinto” (K.L.D. capo X art. 44) Alcune testimonianze riferite alle abitazioni dei primi nuclei di albanesi insediati nel Molise, riferiscono che queste erano costruite in un primo tempo da pagliare, che le case erano in genere “matte”, cioè ad un solo piano, e che rispecchiavano, evidentemente, la forma della casa albanese. In verità, gli insediamenti degli immigrati non furono facili né ebbero carattere definitivo, la costituzione delle comunità infatti, non è avvenuta d’un colpo con uno spostamento netto o definitivo, ma è stato il risultato di processi lunghi e complessi, con passaggi senza stanziamenti attraverso centri diversi, rapido sorgere e scomparire di agglomerati provvisori, assorbimento di piccoli gruppi in centri più grandi, fusione di nuclei di albanesi provenienti da diversi luoghi (Pugliese Fernanda, Indagine sullo stato della lingua albanese a Montecilfone, Centro Sociale Gjaku Shprishur, . tip. Landolfi, Termoli, 1992). La stabilità degli insediamenti nel tempo, diede modo agli immigrati di organizzare la struttura sociale secondo un modello originale di nucleo abitativo che vedeva nel vicinato “Gjitonjia”, la trasposizione e la continuazione della organizzazione della famiglia. La gjitonjia era legata dal vincolo della “vullanja” fratellanza, intesa come un concetto giuridico di origine germanica, e si configura come un diritto dell’associazione giurata dei cittadini a difendere i propri interessi soggettivi. In questo senso il concetto di gjitonjia ha avuto una rilevanza giuridica che nel Kanun si esplicitava attraverso il diritto di concessione della fratellanza e l’accettazione di un individuo di un’altra famiglia e un’altra bandiera. L’equilibrio della gjitonjia veniva rotto con il mutamento sociale dei suoi appartenenti e l’altrerazione dello status, che però veniva condiviso dall’intero gruppo, che assumeva, di volta in volta, un ruolo determinante rapportato all’evento. In modo particolare l’equlibrio si mutava in occasione dei matrimoni, se questi erano contratti con persone latine. Gli elementi urbanistici e architettonici della gjitonjia erano rappresentati dalla tipologia delle costruzioni. Le case, infatti, come si può rilevare dalla tipologia edilizia del centro storico di Portocannone di cui si riporta qualche esempio di schedatura, (all. 5- 6-7) erano originariamente composte da un pianterreno adibito a stalla in cui si accedeva attraverso un arco a tutto sesto, e da un piano superiore formato da poche stanze, raggiungibile tramite una serie di gradini esterni appoggiati alla parete dell’edificio e coperti da una balaustra laterale. Le scale erano dette poggi e culminavano in un piccolo ballatoio, cinto da una ringhiera o da un muretto nel quale era situato l’ingresso dell’abitazione. Dell’interno delle abitazioni viene resa una generica descrizione dal Di Lena “la stanza d’ingresso è un’ampia cucina, con focolare, forno, e armadi a muro che possono contenere anche granaglie. L’ambiente giustapposto serve da camera da letto, a un angolo dell’interno è addossata la vatra del focolare con annesso un forno. La stanza che sovrasta la stalla possiede delle fenditure negli angoli del pavimento, nelle intercapedini, dette “fussette”, veniva convigliato il cibo nella mangiatoia degli animali. Le case in genere erano tutte raggruppate tra loro, l’una attaccata all’altra, poste ai lati delle strade distavano da esse in modo proporzionalmente stabilito. L’architettura delle abitazioni era semplice, pietre grossolane, legno e terra del luogo. Nel Tavolario Pinto del 1663, in riferimento al casale di San Leucio si legge che … “le abitazioni sono generalmente coperte con canali di creta con primo e secondo ordine, né malcomposte di architettura e con piazze ampie e larghe avanti e vi è la loro venerabile chiesa parrocchiale che è grandetta, ad una nave e coperta ad embrici e buono e decente l’ingresso..” (Di Lena op. cit. pag. 37). In documento del 1618 si legge che a Montecillfone, “…..le abitazioni sono generalmente matte, intendendo per matte le case a un solo piano.” (Di Lena op. cit pag. 34) Il Tria, afferma che le case degli albanesi erano….”in genere comode, ma non troppo ben fatte…..le fabbriche non sono dispregevoli e vi si vedono delle commode, e ben formate”. (Tria o. cit. pagg. 453, 421). I luoghi di culto La maggior parte degli edifici di culto erano intitolate a San Pietro, lo si evince dai ruderi della Chiesa di San Pietro a Campomarino e dalle chiese di Montecilfone e Portocannone, anch’esse intitolate al primo martire del Cristianesimo. Solo dopo la soppressione del rito greco avvenuta nel 1696 nel Sinodo di Benevento per opera di mons. Catalani, le chiese cambiarono titolo. Quella di Montecilfone fu consacrata a San Giorgio e collegata alla venerazione del Castriota anch’egli difensore del Cristianesimo, come il martire di Cappadocia. Lo si evinceva da una raffigurazione della immagine di Skanderbeg incisa nella gualdrappa della Statua del Santo, realizzata dallo scultore Paolo Di Zinno nel 1750 (Matteo Giorgio di Lena, Gli Albanesi di Montecilfone, Tip. L’economica, Campobasso, 1971, pag. 126). A seguito della soppressione del rito bizantino, la chiesa di Portocannone fu intitolata alla Madonna di Costantinopoli, la Vergine HODEGITRIA che, come la reliquia del Santo Legno della Croce adorata ad Ururi, secondo un’antica leggenda, aveva guidato gli albanesi nel loro viaggio avventuroso dall’Albania. GLI Albanesi stanziatisi a Guglionesi nella zona più alta del paese, presso la cinta muraria del Portello, popolarono la città organizzandosi in forma autonoma anche dal punto di vista urbanistico. Cattolici di rito greco – bizantino, adattarono alle esigenze di tale culto le loro chiese. La chiesa di San Pietro fu ripristinata per tale scopo. La ristrutturazione della chiesa di San Pietro viene ricordata dal canonico C.M. Rocchia nella sua “Historia di Guglionesi”, che spiega la tipologia dei lavori per la costruzione dell'’edeficio ad opera greca, con la riduzione dell’altare e la costruzione dell’iconostasi La testimonianza della loro fede viene resa da un celebre dipinto: una MADONNA TRA I SANTI PIETRO e PAOLO. Un trittico in legno su fondo oro, opera di un artista albanese ivi dimorante, MICHELE GRECO Da LAVELONA (Valona). La Tavola datata 1508 reca la seguente scritta: “HOC OPUS FACTUM FUIT TEMPORE DOMINI LIBERATORIS ARCHIPRESBITERIS SAN PETRI, SUB ANNO INCANATIONIS 1508. Assolutamente interessante dal punto di vista artistico, il dipinto, in perfetto stile iconografico bizantino, mostra anche la tipologia del culto. In atto di adorazione, infatti, ai piedi della Vergine, sono dipinti due personaggi che il canonico ROCCHIA nella sua Cronistoria di Guglionesi, scrive che si tratta “del pope, sacerdote greco, e della moglie del medesimo”. Santa Croce dei Greci, che oggi ha mutato il nome in Magliano, era così denominata per via del rito greco praticato dalle popolazioni che venivano generalmente distinte con tale pseudonimo in tutta l’area. E’ stato il primo paese a perdere definitivamente la lingua, ma l’ultimo a perdere il rito, e lo si può desumere dalla presenza della chiesa greca, da iscrizioni greche nell’architrave della masseria del Verticchio e soprattutto dal doppio registro dei battezzati in rito greco e latino depositati nell’archivio parrocchiale. La tipologia del rito, attestata in numerosi altri documenti ed atti ( visite ad limina dei vescovi come quella di mons. Quaranta del 1646 ecc..) hanno meritato agli albanesi del tempo l’appellativo di Greci. Un attributo che ancora oggi si legge nella toponomastica di diversi quartieri nei paesi dove si sono stabiliti gli insediamenti (largo dei greci a Guglionesi, vico dei Greci ecc..) Riferimenti bibliografici Ciarla Giuseppe, Dopo un secolo, ovvero Relazione sulla quistione demaniale del comune di portocannone , sta. Tipografico Colitti, Campobasso 1910 D’Angelo Carlo, Montecilfone, Toponomastica arbereshe, ed. Kamastra, tip. Romanelli, Guglionesi 2005. D’Angelo Maria Rosaria, Costruzione sistematica di un diritto arbereshe, tesi di laurea in giurisprudenza, università degli Studi del Molise, a.a. 2003/2004 De Nisco aria Eleonora, Insediamenti albanesi nel Molise, tesi di laurea in Lettere, Università degli Studi di Pisa, a.a. 1993/1994 Di Lena Giorgio Matteo, gli Albanesi di Montecilfone, tip. Rico, San Salvo 1972 Flocco Michele, Studio su Portocannone e gli Albanesi d’Italia, Cartotecniche Meridionali, Foggia 1985 Tria Giovanni Andrea, Memorie storiche, civili ed ecclesiastiche della città e della diocesi di larono, Zempel, Roma 1744 (ristampa ed. Cosmo Iannone, Isernia 1988). Consultazioni: Archivio storico Campobasso, Archivi comunali. Codice Lek Dukagjini, Fonti di informazione sugli Arberesh in Molise Rai Storia – Viaggio nell'Italia del Giro – Roccaraso, il Molise e i Sanniti (2015) (Ermal Hoxha) https://www.youtube.com/watch?v=IcqlJ1VbV4o Materiale sui Tratturi – Parole chiavi Francesco Ciminio, Assocciacione Coast to Coast I tratturi del Molise sono una rete tentacolare Tratturo = Pista erbosa Migrazione degli animali dalle montagne giù verso le Puglie. Una rete del 1447 statutita dagli aragonesi. Un sistema economico, una macchina economica per far diventare gli aragonesi i primi produttori di lana in Europa. Insediamenti sannitico – strade romane – tratturi Nicola MAstronardi, scrittore e storico Il concetto politico dell’Italia nasce in Molise (ed Abbruzzo) Pietraabbondante – il luogo dove i Sanniti realizzano le prime idee sull’Italia Rai Storia – Controfatica – Le comunità albanesi in Molise – a cura di Bruno Modugno, 1969 https://www.youtube.com/watch?v=RvK_11akdIc Raccolta dati sulle città/comunità Arbëresh in Molise Campomarino / Portocannone / Ururi / Montecilfone 1456 Terremoto nel Molise Occorreva ricostruire le città e in 10-20 anni gli Arbëresh ricostruirono interamente i casali molisani, secondo una struttura urbana che riffletteva quella balcanica. Rivista Kamastra, delle comunità Arbëreshe e serbo-croate del Molise Sportello linguistico Dott.ssa Angela Carafa, Responsabile regionale sportelli linguistici Quello che – a cura di Cristina Prezioso https://www.youtube.com/watch?v=Qp7-eKILUzA Tra 1450-1460 Skanderbeg, e il suo esercito, fù chiamato dal Re Alfonso V d’Aragona per reprimere la ribelione dei baroni nel sud d’Italia. Ritornano nel 1461 per aiutare il figlio d’Alfonso, Ferdinando d’Aragona, contro gli angioini. Cosi, gli Arbëresh contribuiscono alla formazione del Regno delle due Sicilie. Mario Moccia – Cultore di tradizioni Arbëresh Dopo la morte di Skanderbeg (1468), nuova ondata di Arbëresh in Molise. Venivano accolti come intrusi, e anche loro non erano persone facili da trattare. Rito bizantino nella liturgia, quindi chiesa ortodossa (per chi veniva da Morea e Ianina) e cattolica (per le altre regioni). Antonio Moccia – Sindaco di Montecilfone (Munxhufuni) Caffè letterario (per promuovere la lingua albanese/arbëresh e come fulcro di attività culturali. Costruire un percorso di visita e fruizione del territorio, aggregandosi attorno allo stesso caffé. Punto di accesso alla rete) Il Bosco di Corundoli - Noto per la raccolta delle erbe selvatiche e in particolare per l’asparago. Grotta di Corundoli – arriva fino le sponde di Bifero Fernanda Pugliese – Direttore “Kamastra” L’Arbëresh è come come la lingua di Dante per gli italiani di oggi. Canti e filastrocche in albanese per conservare la lingua. Ururi – Piccola Grande Italia – Realizzato da www.amilylifetv.it https://www.youtube.com/watch?v=CdGAQW9THtk Molise Coast https://molisecoast.com/campomarino/ Campomarino è una ridente e tranquilla cittadina di mare, con una spiaggia larga e lunga fino al confine con la Puglia, dove esiste ancora un esempio stupendo di macchia mediterranea. Un paesaggio incantevole si può ammirare dal terrazzo che affianca il borgo antico e la chiesa di Santa Maria a mare che, fino a qualche decennio fa, era popolato da gente di origine albanese, bravissimi agricoltori. Interessanti reperti archeologici dimostrano le sue origini lontane nel tempo. Situato a meno di un chilometro di distanza dal paese, Campomarino Lido è oggi località prediletta per un turismo estivo di natura balneare. Con il suo porticciolo turistico recentemente costruito e le sue spiagge circondate da pinete che arrivano fino alla foce del fiume Biferno, Campomarino è una meta assolutamente da non perdere. Oggi, Campomarino è anche la città del vino per eccellenza che per gli amanti permette di visitare cantine di produttori singoli e associati con il merito di aver avviato, più che altrove, l’immagine del vitigno autoctono “Tintillia”. Giorgio Castriota Skanderbeg e la Tradizione Arbëresh Ricordi e memorie · Campomarino https://molisecoast.com/poi/giorgio-castriota-scanderbeg-e-la-tradizione-arberesh/ Campomarino risale a epoche remotissime. Da alcuni scavi archeologici effettuati in località Difensola sarebbero emersi un abitato paleolitico risalente all’età del ferro XII-XI secolo a. C. e una località romanica identificabile con Cliternia, come viene attestato dalla tipologia dei ritrovamenti. Nel XI secolo fu scelta dai templari, i quali ebbero nella zona molti possedimenti testimoniando il passaggio dei pellegrini e dei crociati diretti in Terra Santa. Successivamente, Campomarino fu occupata dai longobardi e dai normanni. Ma tra tutte le popolazioni, quella albanese è stata l’unica a ripopolare il paese nel XV secolo, contribuendo alla rinascita di una località che presto assunse il carattere etnico delle popolazioni e delle famiglie arbëreshe. La religiosità della popolazione, radicata nei rituali della tradizione greco-bizantina, è visibile nei ruderi di un’Antica Cappella intitolata ai Santi Pietro e Paolo, mentre il corso principale del paese ricorda l’eroe albanese Giorgio Castriota Skanderbeg, le cui gesta eroiche gli hanno assegnato il titolo di Atleta di Cristo. La storia ci tramanda che nel 1466 Campomarino fu raggiunta da Albanesi in fuga dai Turchi. Ancora oggi si conservano gli antichi usi e il tipico dialetto di quella popolazione. Durante gli anni che andavano dal 1461 al 1470, Giorgio Castriota Skanderbeg (principe di Krujia Albania) inviò un corpo di spedizione di circa 5.000 albanesi guidati dal nipote Coiro Stresio, in aiuto a Ferrante I D’Aragona nella lotta controGiovanni d’Angiò. Quindi, le popolazioni subirono quella che fu, nella storia delle colonie albanesi in Italia, la terza migrazione. I coloni albanesi rifondarono le terre e vissero, convivendo pacificamenteper lungo tempo, con la popolazione locale. Ururi, Campomarino e Santa Croce di Magliano, furono ripopolate da albanesi richiamati in quei territori dai feudatari laici o ecclesiastici, come Andrea da Capua che, avendo acquistato il casale di Campomarino, lo assegnò nel 1495 ad una colonia di albanesi. Le famiglie principesche albanesi hanno tramandato usi, costumi e lingua. Infatti, ancora oggi, pur nella sua forma esclusivamente orale, resiste l’arbëreshe, un idioma che negli ultimi decenni è sottoposto a un veloce declino, ma che allo stesso tempo si cerca di preservare. Le popolazioni albanesi, insediatesi nei territori fondarono agglomerati urbani molto simili a quelli dei paesi d’origine. La struttura urbanistica che caratterizzava le abitazioni e lo stile di vita di queste popolazioni era la Gjtonja, un quartiere dove si svolgeva la vita sociale degli abitanti, con abitazioni costruite su due piani con scale esterne e loggiato, ancora esistenti nel centro storico di Campomarino. Nel corso dei secoli, la popolazione albanese si è unita a quella locale. Oggi, di quell’antica stirpe, solo la lingua ne conserva la preziosa memoria. Nonostante Campomarino sia italo-albanese, le località di Campomarino Lido, Nuova Cliternia, Ramitelli e Contrada Cianaluca, hanno avuto una storia a sé rispetto al capoluogo comunale, e non appartengono interamente alla cultura arbëreshe. Tratturo L'Aquila-Foggia, tratto Campomarino Ambiente · Campomarino https://molisecoast.com/poi/tratturo-laquila-foggia-tratto-campomarino/ Il Tratturo L’Aquila-Foggia, con i suoi 244 km, è il più lungo e il più importante dei cinque Regi Tratturi: per questo motivo, è chiamato anche Tratturo Magno. Il tratto di Campomarino è l’ultimo in territorio molisano. I Regi Tratturi costituiscono una preziosa testimonianza di percorsi formatisi in epoca protostorica in relazione a forme di produzione economica e di assetto sociale basate sulla pastorizia, perdurati nel tempo e rilanciati a partire dall’epoca normanno-sveva e in seguito angioina e aragonese. Rappresentano un frammento di storia: conservati per oltre sette secoli e arricchiti di ulteriori stratificazioni storiche, costituiscono il più imponente monumento della storia economica e sociale dei territori dell’Appennino Abruzzese-Molisano e del Tavoliere delle Puglie. Il Tratturo Magno è quello dell’Adriatico per eccellenza. Convogliava le enormi greggi provenienti dai massicci del Gran Sasso, da parte del Sirente e dalla Majella fino ai vasti pascoli del Tavoliere delle Puglie, sfiorando in più occasioni le sponde del Mar Adriatico. Questo tratturo è infatti l’unico dove le pecore e i pastori arrivavano a toccare l’acqua del mare. Dal Tratturo Magno si diparte e poi si ricongiunge il Tratturo Centurelle-Montesecco, collegato a metà strada dal Tratturo Lanciano-Cupello. Il suo percorso tra l’Abruzzo e la Puglia attraversa il Molise: Montenero di Bisaccia, Petacciato, Termoli, San Giacomo degli Schiavoni, Guglionesi, Portocannone, San Martino in Pensilis, Campomarino. Il percorso parte da L’Aquila nei pressi della Chiesa di S. Maria di Collemaggio, entra in Molise, degrada verso il fiume Fortore e raggiunge il Tavoliere delle Puglie, dove a Foggia termina ricongiungendosi al tratturo proveniente da Celano. Lungo il percorso, ancora oggi, si osservano numerose chiese campestri o chiese tratturali per il riparo e il conforto dei pastori, come la chiesa di San Paolo di Peltuinum e la chiesa di Santa Maria dei Cintorelli, da dove si separa il Tratturo Centurelle-Montesecco. Il Tratturo L’Aquila-Foggia è stato oggetto, negli ultimi anni, di un sistematico studio da parte dell’associazione abruzzese Tracturo 3000che dal 1997 lo ripercorre ogni anno in 9 tappe. Il portale per gli Arberesh http://www.jemi.it/index.php/notizie Regione Molise http://regione.molise.it/web/assessorati/bic.nsf/fac382af29309379c1256c8c006171e7/689fd558b59049d3c125741d004cc1e0?OpenDocument Tipologia linguistica: indoeuropeo. L'albanese viene considerato un idioma a sé stante all'interno della famiglia indoeuropea, per quanto consistenti apporti latini e romanzi da un lato, slavi e turchi dall'altro ne abbiano fortemente alterato i caratteri originari, e non soltanto a livello lessicale. I dialetti albanesi si distinguono in due varietà principali, il ghego e il tosco, parlati rispettivamente a nord e a sud del fiume Shkumbni: la varietà tosca è alla base dello standard letterario - affermatosi solo a partire dal 1945 - che è la lingua ufficiale della Repubblica di Albania. Consistenti comunità albanofone vivono nella provincia autonoma del Kosovo (oggi compresa nella repubblica di Serbia e Montenegro), ove costituiscono la maggioranza della popolazione; in Macedonia, ove rappresentano una percentuale consistente, stimabile attorno al 20-30 % della popolazione; in Grecia, ove ai cosiddetti Arvaniti non viene peraltro riconosciuto lo status di minoranza linguistica. I recenti mutamenti politici nell'Europa balcanica hanno inoltre favorito una massiccia emigrazione albanese verso l'Europa occidentale e in particolare in Italia: essa va tenuta tuttavia distinta dall'insediamento storico di comunità albanofone del Meridione della penisola. Diffusione in Italia: l' emigrazione albanese in Italia è avvenuta in un arco temporale che abbraccia tre secoli, dalla metà del XV secolo alla metà del secolo XVIII. La formazione delle colonie albanesi risale a dopo il 1468, anno della morte dell'eroe nazionale, Giorgio Castriota Scanderbeg. Nel XV secolo, prima e dopo, l'invasione ottomana e la caduta di Scutari, si registrano passaggi di gruppi consistenti di emigrati albanesi a Venezia, dove formarono una fiorente colonia, e nei territori della Serenissima.Questi gruppi, parlanti varietà dialettali di tipo tosco, iniziarono a trasferirsi in Italia a partire dal sec. XV, incoraggiati dalla politica di ripopolamento messa in pratica da Alfonso I d'Aragona; il movimento migratorio crebbe dopo l'invasione turca dell'Albania (1435) e continuò fino al sec. XVIII con lo stanziamento pacifico di comunità albanesi tra le popolazioni di dialetto italoromanzo. Gli albanesi in Italia fondarono e ripopolarono quasi un centinaio di comunità, la maggior parte delle quali concentrate in Calabria. Gli emigrati costituirono colonie di contadini e soldati alle quali venne concessa piena autonomia amministrativa; fu loro concesso di fondare o ripopolare nuovi villaggi, dopo aver stipulato favorevoli “capitoli” con i feudatari del luogo. I comuni di espressione albanofona sono in numero di 43 distribuiti in sei regioni dell'Italia meridionale: Molise, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia. Per l'Abruzzo, risulta ormai cessata la pratica attiva della lingua presso la comunità albanofona di Villabadessa (frazione di Rosciano) in provincia di Pescara. Nelle altre regioni, comunità albanofone più o meno consistenti sono ancora segnalate in Molise a Montecilfone, Portocannone, Ururi e, sia pure in condizione regressiva, a Campomarino (provincia di Campobasso); in Basilicata a Barile, Casalnuovo Lucano, Ginestra, Maschito e San Costantino Albanese (provincia di Potenza); in Puglia a Casalvecchio e Chieuti (provincia di Foggia) e a San Marzano di San Giuseppe (provincia di Taranto); in Campania a Greci (provincia di Avellino); in Sicilia a Piana degli Albanesi, Santa Cristina di Gela e Contessa Entellina (provincia di Palermo) mentre Mezzojuso e Palazzo Adriano, nella stessa provincia, restano solo culturalmente albanesi. Considerazioni generali: La frammentazione territoriale ha naturalmente inciso sulla tipologia linguistica e sulle vicende sociolinguistiche delle comunità arbëreshe, anche perché l'esposizione al contatto con diverse varietà dialettali italoromanze, ha finito per introdurre elementi di prestito diversificati da una località all'altra. In generale si ritiene che il livello di intercomprensione linguistica tra gli Albanofoni d'Italia e tra essi e gli Albanesi dei Balcani sia discreto, ma non risultano inchieste in merito. Va sottolineato che gli Albanesi d'Italia, inseriti in un contesto di cultura umanistica più evoluto di quello della madrepatria, svilupparono nei secoli scorsi una produzione scritta significativa, con la quale si fa in pratica iniziare l'intera tradizione letteraria in lingua albanese. Le ricadute sulla cultura della madrepatria furono però ostacolate, in parte, dalle differenze di carattere religioso: la maggior parte degli abitanti dell'Albania storica passò all'islamismo dopo la conquista turca del paese, mentre gli Albanofoni d'Italia conservano la fede cattolica e, in gran parte, il rito greco nelle pratiche liturgiche. A questo proposito va rilevata l'importante funzione svolta dai due vescovati di Lungro e Piana degli Albanesi per il mantenimento dell'identità culturale e linguistica oltre che religiosa (è praticato il rito bizantino-greco) delle comunità albanofone che da essi dipendono. Consistenza numerica: le comunità arbëreshe, in passato assai più numerose, hanno conosciuto negli ultimi decenni un forte calo demografico dovuto all'emigrazione verso le grandi città meridionali (in alcune delle quali esistono comunità albanofone compatte), l'Italia settentrionale o verso l'estero, e vivono attualmente gli stessi problemi delle aree interne del Meridione nelle quali si trovano inserite; la tradizione di pacifica convivenza ha fatto inoltre sì che gli Albanesi possiedano da sempre, accanto al loro, il dialetto delle comunità contigue, nel quale si esprimono per i rapporti sociali con la popolazione autoctona. Risulta pertanto difficile calcolare l'esatta consistenza numerica della minoranza: su una popolazione complessiva di circa 100.000 residenti nei centri che compongono l'Arberia, si può calcolare - con qualche eccesso - il numero degli albanofoni in circa 80.000 persone. Tradizione e cultura popolare: l'aspetto fondamentale della tradizione popolare arbëreshè la sua trasmissione legata all'oralità. La coscienza di un identità etnico - linguistica diversa è sempre presente nelle produzioni folkloristiche. Nel folklore, in tutte le sue forme, emerge un costante richiamo alla patria d'origine. I canti popolari e religiosi, le leggende, i racconti, i proverbi rieccheggiano un forte spirito di comunanza e solidarietà etnica. I motivi ricorrenti sono la nostalgia della patria perduta, il ricordo delle leggendarie gesta di Skanderbeg (eroe riconosciuto da tutte le popolazioni albanesi del mondo), la tragedia della diaspora in seguito all'invasione ottomana.La coscienza di appartenere ad una stessa etnia, ancorché dispersa e disgregata, si coglie tra l'altro in un motto molto diffuso, che i parlanti albanesi spesso ricordano quando di incontrano: gjaku ynë i shprishur, che vuol dire ” il sangue nostro sparso”. Altri elementi strutturali della cultura arbëresh delle origini sono giunti ai nostri tempi attraverso una storia secolare, e mantengono una loro forza di rappresentazione dell'organizzazione delle comunità. Tra essi essi ricordiamo la “vatra”, il focolare, il primo locus culturale attorno a cui si muove la famiglia; la “gjitonia”, il vicinato, il primo ambito sociale al di fuori della casa come continuità della famiglia e primo accesso alla comunità. Ancora la “vallja”, la “vëllamja”, la fratellanza, rito di parentela spirituale; la “besa” la fedeltà all'impegno, quasi un rito di iniziazione sociale con precisi doveri di fedeltà alla promessa data senza alcuna prevaricazione. Gjuha Arbëreshe: in base alle normative di legge, l'albanese è riconosciuto come lingua minoritaria dallo Stato Italiano; le varie legislazioni regionali prevedono forme diversificate di tutela e valorizzazione della specificità linguistica delle comunità albanofone. Arbëresh è il nome degli albanesi d' Italia, ovvero di quelle popolazioni che hanno colonizzato soprattutto il meridione d'Italia fin dal 1399. A parte gli elementi innovativi sviluppatesi nel corso della permanenza in Italia, si ritiene che l'Arbëresh sia una varietà del tosco (tosk dialetto parlato nel sud dell'Albania). Ci sono comunque attestazioni che giustificano inflessioni anche del ghego (geg dialetto parlato nel nord dell'Albania).L'Arbëresh (plurale maschile) ha 6 vocali: a,e,ë,o,i,u. A differenza dell'Albanese comune il sistema vocalico arbëreshe manca del fonema y, che viene rimpiazzato da i. Educazione: l'albanese trova impiego sporadico nelle pratiche didattiche, presso alcuni istituti e per iniziativa di singoli insegnanti, soprattutto al di fuori degli orari normali di lezione. La lingua e la cultura albanese vengono insegnate presso alcune università italiane, con riferimento alla tradizione dell'Albania storica; in particolare le cattedre di Lingua e letteratura albanese dell'Università della Calabria e dell'Università di Palermo sono attive nel promuovere programmi di ricerca e di studio sulle comunità italo-albanesi. Media: esistono trasmissioni radiofoniche in lingua albanese presso alcune emittenti locali; vi sono periodici in lingua albanese (testate “storiche” si considerano “Katundi Inë”, “Lidhja - Il legame” e “Zëri i Arbëreshëvet - La voce degli Albanesi”), diffusi principalmente nell'ambito dei gruppi legati alla promozione culturale della specificità albanofona. In lingua arbëreshe si è sviluppata anche una discreta produzione letteraria. Il Quotidiano del Molise http://quotidianomolise.com/storia-degli-arbereshe/ Storia degli Arbereshe Postato il 1 febbraio 2017 da Iury Iavasile in Alternanza Scuola - Lavoro, Mario Pagano - Liceo Scientifico di Iury Iavasile Gli Arbereshe, detti anche albanesi d’italia sono una minoranza etnico-linguistica albanese storicamente stanziata in italia meridionale (Molise, Calabria, Basilicata, Puglia, Sicilia). Originariamente provenienti dalla Morea e dalla Ciamuria (odierna Grecia), si stabilirono in italia tra il XV e il XVIII secolo in seguito alla morte del celebre eroe nazionale Giorgio Castiota Scanderbeg. Si stima che gli Arbereshe siano circa 100.000 e parlano una lingua variante del tosco (lingua dell’antica Albania del sud) che con il passare degli anni è stata tramandata oralmente e modificata con influenze italiane e che attualmente è tutelata dalla legge 482/1999. Quando l’Albania cadde in mano turca, divenendo parte periferica dell’impero Ottomano, i territori albanesi furono saccheggiati, distrutti e aspramente stravolti e, successivamente, fortemente islamizzati. Agli albanesi non rimase che emigrare in diaspora, così come disse Scanderbeg “non una semplice fuga dall’Albania sottomessa ai turchi, bensì l’espressione più profonda del loro attaccamento alla fede e alla libertà”. I primi arbereshe che approdarono in Italia erano tradizionalmente soldati stradioti, anche al servizio del Regno di Napoli, del Regno di Sicilia e della Repubblica di Venezia. Molti degli esuli delle migrazioni successive alla prima appartenevano alle più rinomate classi sociali albanesi fedeli alla ortodossia cattolica, tra cui capi militari, sacerdoti, nobili e aristocratici consanguinei di Giorgio Castriota, che li aveva guidati nell’epica lotta contro gli infedeli ottomani. Nella nostra regione sono 4 i comuni albanesi : Ururi, Portocannone, Campomarino , Montecilfone. Sportelli Linguistici del Molise http://www.sportellolinguisticomolise.it/ +39 0875 979130 info@sportellolinguisticomolise.it http://www.sportellolinguisticomolise.it/index.php/contatti I paesi arberesh Lucani http://www.ilsudchenontiaspetti.it/paesi-arb%D1%91resh%D1%91-lucani/ History of ARBERESH (XHINA Fejzaj) The empowerment of the Arbëresh nucleus in Italy would be established between the middle of the 15th and the 1774s. 1) The first Albanians, soldiers, arrived in Italy, under the orders of Dhimiter Rere, summoned by Alfonso I, king of Two Sicilies (1442-1458, V Aragon: 1416-1458), to intervene in Calabria against the monarch's enemies Iberian, who handed over to Commander Rere political responsibility in Lower Calabria: the settlements of Amato, Andali, Arietta, Casalnuovo di Noja, Vena di Mida and Zangarona. The sons of Commander, Gjergji and Vasili, went to Sicily, giving life to the Albanian communities located in today's provinces of Agrigento, Catania and Palermo. 2) With the frequentation of the links between the Kingdom of Two Sicilies and Albania of Gjergj Kastrioti (Skanderbeg), this gave assistance to Ferdinand I (1458-94) in the wars against Anzhuines, benefiting large land property in Puglia (among which Monte Sant Angelo, San Giovani Rotondo and Trani). There many soldiers stood there, to whom others joined, when after the death of Skanderbeg (1468) - which accelerated the Turkish offensive - more Christians preferred to settle in Italy: the settlements of Campomarino, Casalnuovo, Monterotaro, Casalvechio di Puglia, Chiauti, Faggiano, Martignano, Monteparano, Roccaforzata, San Giorgio Jonico, San Martino, St. Marzano of San Giuseppe, Sao Paulo of Civitate, Santa Croce di Magliano, Sternatia, Ururi and Zollino. Gjergj Kastrioti (1405-1468) fought until the end of his life to keep his land free, in a time when the Ottomans threatened the walls of Vienna throughout the West. The helmet and his sword are still preserved in this city. There was a man of great knowledge and culture (knew five languages); it was of the Catholic faith and the skilled diplomats, the “cricket” of the guerrilla; in 1461 he was received by Pope Pius II (1458-1464) to seek help in the common fight against Turkish enemies. In 1470, after the marriage of Irena Kastrioti with the prince of Bisignano (the great landowner in Calabria), a good part of the Albanians of Puglia moved with the noble Irene to the lands of the spouse, populating: Macchia Albanese, San Cosmo Albanese , San Demetrio Corone, San Giorgio Albanese, Spezzano Albanese and Albanian Vaccarizzo. After the fall of Kruja (1478), the legendary center of resistance against the Muslims, newcomers built the settlements of Acquaformosa, Castroregio, Cavallerizzo, Cervicati, Cerzeto, Civi, Falconara Albanese, Firmo, Frascineto, Lungro, Mongrassano, Plataci, Porcile, Rota Greater St. Basil, St. Benedict Ullano, St. James of Acre, San Lorenzo del Vallo, San Martino of Finita, St. Catherine of Albanese, Hephaustinopoulou, Serra d'Aiello, etc. 3) The great Albanian emigrations of the half of the second millennium ended in the years 1533-1534, with the surrender of the castle of Korona, the last shield of the Albanian resistance against the Ottomans. Albanian families took refuge in Naples, on the island of Lipar; most went to Melfi (the expelled Albanians split and built Barile), in Brindisi Montagna, Farneta, Badessa) and 1774 (Brindisi Montagna). Arbëresh groups were located in the province of Parenzo and in the village of Peroi (Istria and Pula). Other Albanians took place between the 15th and 16th centuries in Bari, Bosco Tosca and Pievetta-Dogana (Piacenza), Cardevole (Corsica) and Rimini.But later they started dealing with local trade that was conceded by Venice. Different Albanians preferred to be recruited into Spanish armies and heroically fight in European wars (the famous Albanian cavalry of the Vendicus, otherwise known as the Cavalier of the Stratiots and the Albanian Infantry of Naples, created by King Charles VII (1734-1759) III of Spain: 1759-1788). Refugees were considered Catholic by the local authorities. Over time, many colonies were imputed to Latination or the threat of such a mass, though in a mixed form of Latin, and Byzantine liturgy. Going further with the history of the arberesh another important moment is when they were part of the Albanian literature progress. The arbereshet of Italy, placed in a foreign environment, at the risk of constant invocation of full assimilation, for more than five centuries, even though under the conditions of a distribution and based in small settlements, away from each other and in such departures that could haven’t be neighbors, no continuous meetings and connections, have captivated showed in the protection of the language, the traditions and the beautiful customs inherited from Albania, especially in the 19th century, In addition to literature, in the Arbëresh villages, especially through the influence of the help of the Archeological colleges, in the face of patriotic activity and the spirit of the Renaissance movement. Their history the powerful mental and cultural movement of the nineteenth century, as it is well known, brought a big turning, in which the Albanian literature started. To keep up with: Jeronim De Rada, Zef Skiroi, Pope Luca Matranga etc. Nowadays they are continuing this way of life while preserving everything possible even though to mention the fact of internal immigration and the relocation of the new population to other cities of Italy, has made possible that this culture and tradition to assimilate slowly. It is estimated that the Arbereshe are about 100,000 and speak a variant language of the Tosco (language of ancient southern Albania) that over the years has been handed down orally and modified with Italian influences and which is currently protected by law 482/1999. Bibliografia: Annuario Generale dei comuni e delle frazioni d'Italia, TCI, Milano, 1980; “Annuario Pontificio”, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 1999, pp. 1161; Giuseppe Castellani (dir.), Storia delle Religioni, UTET, Torino, 1971, 6ª ed., vol. IV, p. 645; Enciclopedia Cattolica, Città del Vaticano, 1948, vol. I, pp. 636-50; Enciclopedia Italiana, Roma, 1949, vol. II, p. 92; Vincenzo Fucci, Sulle origini `albanesi' di S. Giorgio Lucano, “Basilicata Regione ? Notizie”, Potenza, n. 1, 1996, pp. 79-84 Hubert Jedin (dir.); Storia della Chiesa, Jaca Book, Milano, 1993, 2ª ed., vol. IX, pp. 445-6; Alban Kraja, Kosovo. La sopravvivenza di un popolo. Le vere cause storiche di un conflitto, Iliria Edizioni, Rimini, 2000, 2ª ed, pp. 52-4; “Libertà”, Piacenza, 22 agosto 1990; Angelo Masci, Discorso sugli Albanesi del Regno di Napoli [1807], Marco, Lungro, 1990; Mons. Angelo Mercati e Mons. Pelzer (dirr.), Dizionario Ecclesiastico, UTET, Torino, 1953, vol. I, p. 76; Bruno Pancini, Una minoranza di origine albanese in provincia di Piacenza? Ricerche attendibili farebbero risalire alla fine del '400 o inizi del '500 l'insediamento di due ceppi famigliari: i Tosca e gli Albanesi, “Realtà Albanese”, Roma, I (1990), n. 1, Aprile, pp. 23-4; Ivana Tanga, Storia delle comunità albanesi in Italia, ivi, p. 24. www.dardania.com/phoenix/...art04.html I Paesi di Arbëreshë in Molise – Itinerario Culturale, Rurale e Agriculturale (MALVINA KOLIÇI) === Gli Arbëreshë a Molise === Gli Arbëreshë, detti anche albanesi d’italia sono una minoranza etnico-linguistica albanese storicamente stanziata in italia meridionale (Molise, Calabria, Basilicata, Puglia, Sicilia). Gli Arbereshe in Italia, sono pozicionati in dieci province: Cosenza, Catanzaro, Crotone, Potenza, Foggia, Taranto, Campobasso, Palermo, Avellino e Pescara, Originariamente provenienti dalla Morea e dalla Ciamuria (odierna Grecia), si stabilirono in italia tra il XV e il XVIII secolo in seguito alla morte del celebre eroe nazionale Giorgio Castiota Scanderbeg. Si stima che gli Arbereshe siano circa 100.000 e parlano una lingua variante del tosco (lingua dell’antica Albania del sud) che con il passare degli anni è stata tramandata oralmente e modificata con influenze italiane e che attualmente è tutelata dalla legge 482/1999. Quando l’Albania cadde in mano turca, divenendo parte periferica dell’impero Ottomano, i territori albanesi furono saccheggiati, distrutti e aspramente stravolti e, successivamente, fortemente islamizzati. Agli albanesi non rimase che emigrare in diaspora, così come disse Scanderbeg “non una semplice fuga dall’Albania sottomessa ai turchi, bensì l’espressione più profonda del loro attaccamento alla fede e alla libertà”. I primi arbereshe che approdarono in Italia erano tradizionalmente soldati stradioti, anche al servizio del Regno di Napoli, del Regno di Sicilia e della Repubblica di Venezia. Molti degli esuli delle migrazioni successive alla prima appartenevano alle più rinomate classi sociali albanesi fedeli alla ortodossia cattolica, tra cui capi militari, sacerdoti, nobili e aristocratici consanguinei di Giorgio Castriota, che li aveva guidati nell’epica lotta contro gli infedeli ottomani. Nel XV secolo, infatti, Alfonso d’Aragona, re di Napoli, per contrastare le rivolte dei baroni locali, sollecitate dagli Angioini, fece venire dall’Albania gruppi di mercenari. Da questo momento in poi le migrazioni furono sempre più frequenti. L’ultimo gruppo di albanesi fu guidato da Giorgio Castriota Scanderbeg, l’eroe nazionale albanese che aveva arrestato l’avanzata dei Turchi di Maometto II. Perché Scandeberg giunse in Italia? Perché doveva appoggiare militarmente Ferrante, re di Napoli, succeduto ad Alfonso d’Aragona. In cambio, i soldati ottennero terre e proprietà: in virtù di ciò il primo nucleo di albanesi si stabilì definitivamente in Abruzzo, Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia. Nella Provincia di Campobasso, sono 4 i comuni albanesi: Ururi, Portocannone, Campomarino, Montecilfone. (http://quotidianomolise.com/storia-degli-arbereshe/) L’identità italo-albanese: gli arbereshe Due sono state le motivazioni dell’accoglienza albanese dalle popolazioni autoctone meridionali. 1. La prima fu perché gli albanesi vennero considerati martiri della fede cristiana: avevano combattuto e frenato l’avanzata turca; 2. la seconda perché le carestie, le pestilenze, i terremoti avevano indotto i contadini a lasciare le campagne e i proprietari terrieri, per il proprio vantaggio, offrirono ai profughi la possibilità di insediarsi e lavorare le campagne. Gli insediamenti albanesi più compatti e omogenei diedero vita a comunità italo-albanese, gli arbereshe. Gli elementi identificativi sono stati e sono la religione, rito bizantino di lingua greca, l’arbërisht, lingua parlata di forma dialettale che si collega con la variante linguistica del sud dell’Albania, da dove ha avuto origine la diaspora. (http://www.ilsudchenontiaspetti.it/paesi-arb%D1%91resh%D1%91-lucani/) === Le characteristiche degli paesi Arbëreshë === Nella zona di riferimento, nel corso dei secoli sono giunte da oriente popolazioni croate e albanesi: tre paesi croato-molisani (Acquaviva Collecroce, Montemitro, San Felice del Molise) e quattro centri arbëreshë (Ururi, Portocannone, Montecilfone e Campomarino) sono presenti nella zona basso-molisana e questo rappresenta una peculiarità e un arricchimento culturale dell’area. Queste popolazioni hanno condiviso con le genti originarie del posto la medesima cultura, incentrata su interessanti commistioni tra attività agricole, pastorali e marinare. (Annali Del Turismo - http://www.geoprogress.eu/wp-content/uploads/2016/05/AT2012.pdf ) * Territorio Rurale e Agricultura I paesi di Arbëresh hanno caratteristiche comuni che possono essere utilizzate per sviluppare un progetto che li vincoli tutti in un intero itinerario. Il primo lineamento si referisce all territorio. Questi paesi sonno situati in un territorio ricco, rurale (esclusa Campomarino – che e al mare) che condividono l’amore per la terra, lavorandola per alimentarsi e per motivi commerciali. Questi Paesi sono conosciuti per la coltivazione della vitte e produzione dell vino, coltivazione delle olive, grano e altre culture. Gli quarto paesi arberesh nell Molise produrrono vino e fano l’esporto all estero. Il Campomarino e anche conosciuto come la Citta Del Vino e ha vinto anche premi per la qualita dei suoi prodotti. Queste caratteristiche parlano di un charater di questi paesi, che si uniscono in uno solo proggeto. * Le tradizioni ricce di linguagio unico, folclore e dei Tradizioni Specifiche come: Le Carresi del Molise: storia e tradizioni secolari - Le Carresi di San Martino in Pensilis, Ururi e Portocannone. San Martino in Pensilis, Ururi e Portocannone sono alcuni dei comuni in cui vengono celebrate le carresi. Anche queste carresi appartengono al medesimo ed antichissimo ciclo rituale della rinascita primaverile e dell’approssimarsi del raccolto, al quale la comunità affida le sue speranze di sopravvivenza. Ururi e Portocannone hanno una particolarità: sono due comuni di origine arbëreshe, ossia di origine albanese. La ricorrenza delle manifestazioni in due paesi di origine albanese potrebbe far supporre una provenienza del rito dall’altra sponda dell’Adriatico; in realtà, numerose testimonianze confortano la teoria di un’origine autoctona, ed addirittura Sannitica, del complesso cerimoniale. * San Martino in Pensilis Di grande rilievo sul piano storico-culturale, la corsa dei carri in onore del patrono San Leo che si svolge nella piccola comunità di San Martino in Pensilis il 30 aprile di ogni anno. Si tratta di una corsa vera e propria. I carri, attualmente tre, vengono trainati da buoi e si contendono la vittoria. Tutta la festa ha un preciso cerimoniale. La corsa si svolge su un percorso di 9 Km e prende avvio dal tratturo. Vi ricordate dei tratturi? Ve ne abbiamo parlato qui. L’assegnazione del posto di partenza non è casuale: infatti, il primo posto viene lasciato al carro vincitore nell’anno precedente. A metà percorso avviene il cambio dei buoi, caratteristica unica nelle manifestazioni di questo genere. La gara termina davanti alla chiesa. Il carro vincitore ha l’onore di trasportare in processione il busto di S. Leo il successivo due maggio. La competizione è vivissima e i carri, ormai da secoli, si dividono vittorie e sconfitte * Ururi La corsa che si svolge a Ururi è forse collegata all’istituzione della festa della Croce in legno di Gesù, croce portata in Italia da Sant’ Elena. Qui la corsa si svolge tradizionalmente il 3 maggio. A Ururi il giorno della corsa, i carri si recano davanti alla chiesa di Santa Maria delle Grazie dove, nel silenzio più assoluto, viene impartita la benedizione ai buoi, ai carrieri e ai cavalieri. Successivamente i carri, seguiti dai sostenitori, si avviano alla partenza. Anche ad Ururi la disposizione dei carri va in ordine di merito, secondo l’arrivo dell’anno precedente. La corsa inizia a 4 km dal paese e termina sullo spazio antistante alla chiesa S. Maria delle Grazie. La gara lascia tutti con il fiato sospeso ed ogni anno la vittoria è combattuta e non scontata. Infatti, il primo carro a giungere in paese è costretto a seguire un percorso di 19 m più lungo. Ed ogni volta è una sorpresa. Il successivo 4 maggio, il carro vincente porta in processione la reliquia del Legno della Croce. * Portocannone La corsa si svolge ogni anno il lunedì seguente la Pentecoste e viene celebrata la Madonna di Costantinopoli. La vittoria della corsa viene contesa da due carri trainati da quattro buoi, Giovani e Giovanotti. I carri e i rispettivi cavalieri si portano a circa 3 km dall’abitato e si dispongono secondo l’ordine di arrivo dell’anno precedente. Su ciascuno prendono posto tre conducenti; un cavaliere si pone davanti ai buoi con il compito di guidare il carro, altri accompagnano incitando i buoi con lunghe aste di legno. L’arrivo è fissato sul sagrato della chiesa. Anche in questo caso, il carro vincitore avrà l’onore di portare in processione la Madonna di Costantinopoli. Per gli arbereshe, i carri sono usati in memoria degli precedenti. Si si pensa che tramite i carri, gli arbereshe avevano scelto il luogo in cui sarebbero posizionati. * La carrese di Larino Tra le carresi che abbiamo appena elencato, quella di Larino spicca per le sue peculiarità e la sua storia. Quella di Larino è, infatti, la più antica manifestazione molisana. La tradizione vuole che la festa risalga al lontano 842, quando i larinesi entrarono in possesso delle reliquie di San Pardo, custodite a Lucera, in provincia di Foggia. Ed è proprio a San Pardo che è dedicata questa meravigliosa tradizione. La prima grande e sostanziale differenza con le carresi precedentemente viste sta nella processione. A Larino, infatti, i carri, sempre trainati da buoi, procedono a passo d’uomo, senza competizione. San Pardo, patrono della città e della diocesi, viene sentitamente festeggiato il 25, il 26 e il 27 maggio di ogni anno. La manifestazione è, allo stesso tempo, semplice e ricca. https://blog.biotravel.it/carresi-molise-storia-tradizioni/ ===== STORIE DI ARBERESH NEL PAESAGGIO CULTURALE IN MOLISE ===== (PROJECT)